E' giunto il
momento di esaminare più in particolare il rapporto di Terayama con il teatro.
In base alla nostra ricerca possiamo
dire che, contrariamente a quanto potrebbe apparire ad una prima analisi,
l'interesse di Terayama nei confronti del teatro non risale alla maturità, si
tratta piuttosto di un processo interiore molto lento, iniziato a livello
pressoché inconscio durante l'adolescenza. Molto interessante a questo riguardo
è un'intervista, rilasciata in forma colloquiale un anno prima della morte a
Kitagawa Takanobu, trascritta e pubblicata postuma da quest'ultimo:
"Ho
iniziato a fare teatro durante il primo
anno di università, nell'auditorio Ôkuma, con lo spettacolo "La terra
dimenticata". Ne conservo ancora il copione.
[...] Così ex abrupto non sono in grado di risalire ad al motivo preciso per
cui abbia iniziato.
Quello che so con certezza è che al
Gekiken della Waseda University era nata una compagnia teatrale, il Jiyû
Butai (palco libero). [...] A quell'epoca io facevo parte del circolo dei poeti
della Waseda e come membro di tale gruppo non andavo molto d'accordo con i
ragazzi del Jiyû Butai. [...] Al Jiyû Butai si preoccupavano di appianare le
divergenze dei vari gruppi facenti parte del Gekiken. Per evitare che si
formassero delle resistenze solitarie, il gruppo del Jiyû Butai pensò di unire
i vari gruppi appartenenti al Gekiken e mettere su uno spettacolo.
Naturalmente gli spettacoli che
venivano allestiti dal Jiyû Butai erano piuttosto carenti e, spesso per ovviare
ad alcune mancanze, si ricorreva a soluzioni molto approssimative.
Per quanto riguarda la mia partecipazione devo dire che è stata un'esperienza
alquanto soddisfacente: avevo pensato ad uno spettacolo che avesse per
protagonisti uomini e animali ciechi, dando vita così ad una Terra Dimenticata, nel senso che nessuno
poteva accorgersi di questo territorio.
Non avevamo ancora iniziato le prove che mi sono ammalato e sono stato
costretto al ricovero, di conseguenza lo spettacolo si è fatto senza di
me."[1]
Questo brano rappresenta
un interessante resoconto della prima esperienza attiva in teatro da parte di
Terayama. Da esso si capisce che l'esordio della sua attività in campo teatrale
sia dovuto a cause contingenti piuttosto che al consapevole desiderio di fare
teatro in maniera attiva. Comunque sempre nella stessa intervista emerge, in
seguito, una presenza del teatro più
sommessa e impercettibile che ebbe inizio con una rappresentazione a cui
Terayama ebbe modo di assistere ad Aomori durante gli anni del liceo:
"La prima
volta che ho assistito ad uno spettacolo teatrale risale ai tempi del liceo.
Gli allievi di una scuola serale davano "Kanjin no Uta" (la canzone
del mendicante) Devo dire che questo spettacolo non mi lasciò assolutamente
nessuna impressione.
Però nel corso dello spettacolo viene cantata la "Ninnananna dei cinque
alberi". Bè, questa canzone, unita all'atmosfera della scuola serale, una
scuola in cui si deve accendere la luce, creava un'atmosfera estremamente
strana.
Io ero un ragazzo da cinema. Sono stato
allevato in un cinema e fino a quel momento non avevo visto altro che film.
Pertanto il vedere delle persone in carne ed ossa che, in una scuola serale,
recitavano cantando in quel modo la "Ninnananna dei cinque alberi" ha
avuto su di me una profonda impressione.
Soprattutto sono stato favorevolmente influenzato dalla presenza di persone in
carne ed ossa. Non ho potuto fare a meno di paragonarle con quelle proiettate
sullo schermo.
Così inconsciamente ho iniziato a desiderare di cimentarmi anch'io nel teatro,
ma al tempo stesso avevo la sensazione che fare teatro in pratica dovesse
essere estremamente difficile. Inoltre già a quell'epoca avevo scritto tanka ed
haiku e pensavo che la mia posizione di poeta fosse inconciliabile con quella
di uomo di teatro."[2]
A quanto pare
quindi la curiosità nei confronti del teatro risale proprio a questa prima
esperienza come spettatore. E' interessante notare che l'elemento che suscitò
l'interesse di Terayama in quell'occasione non fu lo spettacolo di per se: -
"[...] Lo spettacolo non ha lasciato
in me assolutamente nessuna impressione [...]" - bensì l'atmosfera
inconsueta e stridente che si era venuta a creare grazie all'insolita fusione
tra una ninnananna e il locale in cui lo spettacolo era stato rappresentato:
una scuola serale - struttura priva di uno spazio scenico convenzionale -
distante, pertanto, sia dal teatro inteso in maniera classica, sia dalle
normali scuole in cui le lezioni si svolgono nel corso della mattinata.
Il passo
successivo verso la produzione teatrale, come abbiamo già visto, è costituito
dall'esperienza di scrittore di drammi radiofonici. In quel periodo Terayama
aveva bisogno di denaro e la poesia non era sufficiente a garantirgli la
sopravvivenza. All'epoca era un'attività comune tra molti poeti famosi scrivere
romanzi o drammi in versi per la radio, per guadagnare qualcosa.
Terayama
affermava di non sentirsi pronto in quel periodo per scrivere un romanzo,
decise così di dedicarsi alla stesura di drammi radiofonici su commissione di
alcune emittenti. Il successo attenuto diede a Terayama il coraggio sufficiente
per passare alla stesura di drammi per il teatro:
"Ci
sono due ragioni per cui ho iniziato a rivolgermi al teatro. La prima è che con
la poesia non si può sopravvivere. Ho deciso così di passare alla letteratura.
Avevo dei dubbi sullo scrivere un romanzo e così ho iniziato a scrivere drammi
per la radio e cose di questo tipo. Era un metodo molto usato da poeti come
Tanikawa Shuntarô, Ôka Makoto, Kawasaki Hiroshi.
Ricevendo dei premi per queste opere ho acquistato fiducia in me stesso. Mi
sono detto perché non cominciare a scrivere anche per il teatro?
L'altra ragione per cui sono passato a scrivere per il teatro è una ragione
interiore: quando mi sono trasferito a Tôkyô ho fondato un circolo letterario,
e prendevo appuntamento con i nuovi membri qua e là nelle stazioni della
metropolitana vicine alle loro case. [...] Finché incontravo due o tre persone,
si creava quella sensazione di freschezza tipica di quando si incontra una
persona per la prima intervista.
In genere per esprimermi io uso sempre carta e penna e nel ripetere lo stesso monologo divento sempre
più chiuso. Ho anche dei complessi nei confronti della lingua. Non ho un
carattere molto estroverso ma penso che per la crescita personale sia sbagliato
servirsi di un monologo. Penso anche che sia un errore evitare il dialogo,
perché, per cambiare se stessi, potrebbe essere molto produttivo incontrare
delle persone bizzarre, molto diverse da sé.
Pertanto, dal momento che parto dall'idea che il teatro possa esistere solo
laddove ci sia un dialogo, mi sono accinto a scrivere per il teatro."[3]
Il passaggio
dalla produzione di drammi radiofonici ai drammi teatrali risale al 1960,
quando Terayama scrisse, su commissione del Gekidan Shiki, "Il Sangue
Dorme in Piedi" (Chi wa tatta mama nemutte iru). A questa opera seguì la
richiesta di altri copioni da parte di compagnie già costituite. In quel
periodo Terayama non pensava ancora di dedicarsi personalmente al teatro e si
limitava a scrivere pièce per conto di terzi. Tuttavia, con il passare del
tempo, egli sentì nascere in sé l'esigenza di scrivere, a differenza delle
opere che gli erano state commissionate fino a quel momento, un dramma più
lungo, di cui iniziò la stesura intorno al 1963. In quel periodo, malgrado ciò,
la sua attenzione si diresse maggiormente verso composizioni scritte sulla base
di eventi reali, pertanto il suddetto dramma non vide mai una conclusione.
Terayama si dedicò a scrivere saggi sul mondo dello sport e reportage su fatti
di cronaca alternandoli a produzioni drammatiche:
"Per
me i fatti [di cronaca], così come uscire per strada e incontrare le persone
nella loro vita quotidiana, costituiscono delle esperienze a carattere
altamente 'drammatico'".[4]
Il cambiamento
definitivo che portò alla nascita del Tenjô Sajiki avvenne nel 1966. In
quell'anno Terayama fu contattato da Higashi Yûtaka il quale intendeva mettere
in scena uno spettacolo scritto da Terayama, alla Waseda University. Ecco il
resoconto dell'accaduto rilasciato dallo stesso Terayama a Kitagawa Takanobu:
"[...] Improvvisamente fui contattato da Higashi Yûtaka, per mettere in
scena "Il Sangue Dorme in Piedi" con la compagnia teatrale della
Waseda University. Higashi lesse le didascalie e mi disse che voleva rappresentarlo.
Gli ho risposto che avrei preferito non prendervi parte. Gli raccontai anche di
come, in precedenza, già da molti anni desiderassi mettere su una mia
compagnia. Naturalmente non avendo denaro a sufficienza non mi era stato
possibile.
Gli ho proposto di costituirla insieme. Higashi mi disse che avrebbe voluto
includere nella compagnia anche un tizio che si occupava di arte, un certo
Yokoo Tadanori e la signorina Kujô. Per il momento non conoscevamo nessun
altro, ma da allora abbiamo cominciato a radunare attori, partendo da questo
piccolo nucleo..."[5]
E' possibile
crearsi un'idea piuttosto precisa delle
motivazioni che spinsero Terayama verso la sua particolare impostazione
dell'arte teatrale. Il brano che segue è infatti molto significativo per illustrare
quali fossero le premesse in base alle quali Terayama intendeva impostare la
compagnia, derivanti in parte determinante dalla sua posizione nei confronti
del genere teatrale dello Shingeki:
[...] Se
devo essere sincero ora non saprei riferire quale fu esattamente la molla che
mi spinse verso la fondazione di una nuova compagnia, perché non la ricordo con
chiarezza. Comunque senz'altro il
motivo è rintracciabile nell'epoca che mi lasciavo alle spalle. Ero interessato
a sperimentare un tipo di teatro che fosse nuovo, originale. Mentre in quel
periodo il mondo, voglio dire il mondo dello Shingeki, era incentrato quasi esclusivamente su opere tradotte.
Quando a volte mi capitava di assistere a spettacoli di questo tipo mi rendevo
conto, oltretutto, che il testo originale e la traduzione non concordavano
affatto. Inoltre gli attori si esprimevano in un linguaggio letterario e starli
ad ascoltare era estremamente penoso...
Il mio intento era di abbattere il mondo del teatro.
Il che, tradotto in termini pratici, significa che avevo in mente un genere che
si avvicinasse piuttosto al taglio dei documentari, che non a qualcosa di
squisitamente teatrale.
Mi ero prefisso lo scopo di creare un movimento che rompesse completamente e
definitivamente la finzione insita nello Shingeki.
[...] uno dei tipi di finzione contenuti in questo genere teatrale consiste nel
cercare di far passare per reali dei prodotti artificiali"[6]
In effetti
Terayama, nell'ambito di questa 'lotta' contro la staticità e la falsità dello Shingeki, promosse movimenti a scopo
sovversivo come avvenne per esempio nel caso del già citato "Buttate via i libri uscite per le strade":
"Ho promosso il movimento contro la
lettura dei libri per far si che gli studenti si legassero di più alla
realtà."[7] o anche con "Incitazione a scappare di casa".
Stando a quanto
afferma Takatori Takeshi in "Terayama Shûji Ron" uno dei motivi per
cui Terayama fondò il Tenjô Sajiki sarebbe stato proprio per accogliere tutti i giovani che leggendo quest'ultimo
libro si fossero allontanati dalle proprie famiglie.
Egli iniziò a
pubblicare, insieme a Yokoo Tadanori, inserzioni sui giornali alla ricerca di
ragazzi e ragazze, tipi bizzarri, persone colpite da deformità fisiche, gente
stravagante. A coloro che rispondevano all'annuncio veniva fatta un'intervista
raccolta all'impronta da Higashi Yûtaka. Tra i personaggi che risposero alle
inserzioni sui quotidiani ci furono, tra gli altri, anche il giovane Kara Jûrô,
che già svolgeva un'attività di attore,
Hagiwara Sakumi e Ogura Yoshi.
Questo capitolo è
stato pensato allo scopo di fornire una visione a più ampio spettro
dell'attività teatrale di Terayama Shûji. Con il termine contatti si intende infatti
indicare non solo le personalità grazie alle quali Terayama si è avvicinato
alla produzione teatrale e coloro che lo hanno aiutato materialmente ad
iniziare la propria carriera, ma anche il bagaglio culturale che possa aver
fornito, nell'ambito della storia del teatro, uno spunto o anche un elemento di
rigetto per la creazione delle proprie teorie sul teatro moderno.
Dagli articoli
scritti su Terayama, e dalle interviste rilasciate da quest'ultimo, emerge
piuttosto evidentemente la sua forte personalità e la conseguente indipendenza
del suo modo di proporre teatro rispetto alle compagnie che si muovevano nel
Giappone di quegli anni, nell'ambito dell'avanguardia teatrale. Questa sorta di
volontario isolamento si verificò non soltanto sul piano strettamente formale,
ma molto spesso anche per quanto concerne i contatti umani tra Terayama e gli
altri esponenti del teatro di underground giapponese.
Nel capitolo
dedicato ai motivi per cui Terayama si sia rivolto al teatro, abbiamo visto
come l'avvio della compagnia del Tenjô Sajiki sia derivato, in un certo senso,
da un avvenimento contingente: l'occasionale incontro con Higashi Yûtaka, il
quale ebbe l'importante ruolo di catalizzatore di un processo di avvicinamento
al teatro già in atto da lungo tempo.
I primi contatti di importanza sostanziale per la costituzione del laboratorio
teatrale del Tenjô Sajiki avvennero quindi esclusivamente con Higashi Yûtaka,
Yokoo Tadanori e Kujô Eiko.
L'avvio della compagnia teatrale non fu pertanto un processo avviato dall'alto,
grazie all'incoraggiamento di personalità illustri nel campo del teatro - come
era invece avvenuto per i drammi radiofonici. Al contrario una delle idee
basilari di Terayama sul teatro moderno era quella di costituire una compagnia
che traesse la propria forza "dall'essere nata dall'incontro di tutti gli
individui emarginati dalla società", sia per ragioni di deformità fisiche,
sia perché latori di idee sovversive.
Per Terayama l'emarginazione riveste una particolare importanza in
quanto ha il potere di rendere il membro della società che ne è vittima un
'personaggio', dotato di caratteriste peculiari proprie. Egli assume in tal
modo una forza dirompente, derivante dal passaggio da una condizione di numero indistinto di una
società alienante a quella di individuo dotato di una propria personalità e di
idee proprie.
"Marcel
Mauss in "Schizzo di una Teoria generale della Magia" dichiara che le
peculiarità che designano il mago sono costituite sempre da alcune
caratteristiche patologiche, inerenti la sua fisiologia e la sua psicologia; si
tratta di elementi specifici che conferiscono al mago un'esistenza diversa da
quella comune. Questi elementi lo rendono definitivamente un individuo singolo
e distinto, isolandolo così dalle altre persone, conferendogli una qualità
sovrannaturale.
In Africa esiste una credenza secondo
la quale gli zoppi e i fabbri[8] hanno capacità magiche. Il loro compito è
quello di attrarre su di sé il peso degli errori della collettività. Così il
compito iniziale della rappresentazione teatrale consiste nel generare nuove
occasioni di incontro tra zoppi, fabbri, stregoni ed emarginati per invitarli a
formare una compagnia teatrale."[9]
In effetti
Terayama tiene fede a questo proposito, la tenda piantata nel giardino della
sua casa, che i membri della compagnia chiamavano affettuosamente il
"nostro salotto" adempieva proprio a questa funzione di occasione di
incontro.
Così, a parte
qualche caso particolare, la maggior parte dei membri accolti nella compagnia
del Tenjô Sajiki era costituita da persone comuni e non da attori
professionisti.
Il caso più
rilevante di contatto con altri esponenti del teatro di underground del periodo
e costituito dalla presenza di Kara Jûrô.
Egli aveva alle
spalle diversi anni di esperienza come
attore teatrale, e il suo incontro scontro con Terayama è alquanto importante
perché costituisce un raro esempio di contatto tra questi ed altri membri
dell'avanguardia giapponese.
Kara era più
giovane di Terayama e nutriva nei confronti di quest'ultimo una profonda stima
e un notevole interesse per le sue teorie teatrali.
Il loro rapporto era iniziato già nel 1962, quando Kara Jûrô aveva curato
l'allestimento di un dramma televisivo scritto da Terayama, "Un
Animale". In questo periodo iniziò tra i due uno scambio costante di
visite e di corrispondenza. Terayama incoraggiò e sostenne Kara nella
costituzione della propria compagnia il Jôkyô Gekijô (Teatro Situazionale).
L'avversione nei
confronti del dominio culturale dell'occidente era espressa in maniera più
esplicita da Kara rispetto quanto non facesse Terayama. Nelle sue opere è molto
più evidente il tentativo, proprio a tutti i gruppi appartenenti al movimento
post-Shingeki, di sottolineare
un'autonomia e una validità del patrimonio culturale del Giappone. Egli con il
suo Jôkyô Gekijô fece più di qualsiasi altro per dar vita a questo movimento.
Secondo Takatori Takeshi, Terayama e Kara differiscono inoltre per il metodo di
approccio alla realtà; il primo, partendo dalla fantasia per arrivare alla vita
quotidiana, utilizza un metodo induttivo; il secondo al contrario è deduttivo,
spostandosi dalla realtà quotidiana all'ideale. Anche le loro carriere sono
state differenti:
"Terayama
aveva iniziato con la letteratura per poi passare al teatro e tornare infine di
nuovo alla letteratura; mentre Kara Jûrô ha iniziato la propria carriera come
attore e successivamente è passato a dedicarsi alla carriera di scrittore
poiché come drammaturgo è un genio eccellente."
In ogni caso, a
prescindere dalle differenti posizioni dei due scrittori, la loro amicizia ha
prodotto uno scambio di idee comunque proficuo per entrambi. Questo almeno agli
inizi. Difatti a due anni di distanza dalla creazione del Tenjô Sajiki questo
sodalizio, durato quasi dieci anni, si interruppe bruscamente. Le ragioni del
litigio sono riportate da Takatori Takeshi nei seguenti termini:
"Inizialmente il gruppo del Tenjô Sajiki, pur avendo iniziato la propria
attività più tardi rispetto al Jôkyô Gekijô, aveva un numero maggiore di fans.
Questo successo era cagione di forti attriti e di accesa rivalità.
Successivamente, per motivi contingenti, l'attenzione di Terayama si rivolse
maggiormente all'estero, le sue tournée suscitavano grande sensazione e
raccoglievano molte lodi. Il Tenjô Sajiki era divenuto ormai un gruppo
internazionale mentre la compagnia di Kara all'Angura Shôgekijô era diventata
la più amata dai fans giapponesi.
Nel 1972 Kara pubblicò delle critiche irriverenti nei confronti dello
spettacolo Jashûmon. Terayama ne fu
profondamente amareggiato. I rapporti si interruppero; essi ripresero solo nel
1976 quando Terayama partecipò all'allestimento di uno spettacolo del Jôkyô
Gekijô."[10]
In ogni caso,
eccetto questa esperienza di collaborazione e amicizia con Kara Jûrô, Terayama
tese ad isolarsi in maniera piuttosto evidente nel contesto del teatro
giapponese. Non aveva relazioni con le altre compagnie esponenti
dell'avanguardia, né, tantomeno, buoni rapporti con la critica, che giudicava
ciecamente severa e reazionaria. In un intervista rilasciata ad Oôzasa Yoshio
riportata in Dôjidai Engeki to Engeki Sakkatachi, Terayama afferma:
"L'ambiente
del teatro giapponese è troppo ristretto e limitante. Non si è
liberi di organizzare uno spettacolo per le strade che subito si viene fermati
dalla polizia. Le forze dell'ordine sono addirittura pronte ad intervenire
appena si crea un gruppo superiore alle cinque o sei persone.
Lavorare in Giappone è estremamente frustrante. Manca ancora una mentalità
sufficientemente aperta. Capita spesso che persino i comuni cittadini
assistendo ad una delle mie azioni in strada si spaventino e chiamino la
polizia. In Europa e in America la situazione è molto più evoluta."
L'insofferenza
nei confronti della situazione giapponese portò Terayama a compiere molto
spesso tournée all'estero, contribuendo a creare occasioni di incontro diretto
con i maggiori gruppi d'avanguardia occidentali.
Molto spesso,
nelle sue opere, Terayama si limita a menzionare i nomi delle compagnie con le
quali è entrato in contatto, senza dilungarsi in descrizioni del loro operato
oppure prende ad esempio un minimo particolare dei loro spettacoli per
criticare e smantellare alcune teorie consolidate. È pertanto pressoché
impossibile dire quali possano essere stati gli effettivi contatti e quali le
influenze.
Il gruppo di cui
ricorrono nelle sue opere le citazioni più frequenti è costituito dal Living Theatre, che egli ebbe modo di
conoscere direttamente durante una sua tournée in Europa. Per quanto è
possibile dedurre dalle sue citazioni, l'elemento di questa compagnia che
maggiormente, pare, avesse colpito Terayama, concerne quel tipo di esperienza
interpersonale che egli definisce come trasmissione
del contatto. Terayama era perfettamente concorde con la necessità di
instaurare un contatto tra attore e spettatore, una sorta di mezzo meccanico
per la trasmissione dell'energia, espressa nello spettacolo del Living Theatre Paradise Now. In ogni caso la descrizione di Terayama è
estremamente concisa. Essa non permette, pertanto, di capire fino a che punto
le sue idee fossero state influenzate dal Living,
o piuttosto se non si trattasse semplicemente di una concordanza di vedute.
Per quanto
riguarda i contatti indiretti, c'è da premettere che Terayama possedeva una
cultura estremamente estesa sia in campo teatrale sia, più generalmente in campo umanistico, che
abbracciava la produzione autoctona e quella occidentale. È pertanto piuttosto
difficile rintracciare, se vi sia stata una reale influenza da parte di teorici
e autori.
Si può affrontare
il problema da un duplice punto di vista.
Da una parte
possiamo osservare i contatti di Terayama con altri teorici del teatro
attraverso i commenti della critica ed in particolar modo dalla critica
occidentale.
Dall'altra stanno i diversi esponenti della storia del
teatro antico e moderno così come questi emergono dalle analisi contenute negli
scritti di Terayama.
Per quanto
riguarda la critica occidentale, questa molto spesso fa riferimento all'opera
di Terayama come ad un surrogato di Artaud, "Un Artaud da cartolina"
in cui il concetto di teatro della crudeltà viene stravolto e adattato ad un
particolare gusto del macabro e ad una certa indulgenza verso pratiche
sadomasochistiche. È proprio questa la critica più evidente, se non quasi del
tutto esclusiva, riguardo le influenze su Terayama, viste dalla critica
occidentale. Senza dubbio, infatti, quello della crudeltà è l'aspetto che
maggiormente ha impressionato la critica durante le tournée europee e
statunitensi.
Nel corso
dell'intervista rilasciata a Kitagawa, Terayama esprime, nei confronti
dell'accusa di copiare Artaud, un profondo dissenso.
"Ho
letto i saggi di Artaud sul teatro della crudeltà solo recentemente.
Artaud mi piace è vero, ma inizialmente il mio interesse nei confronti di
Artaud era rivolto al poeta surrealista, un uomo che presentava evidenti segni
di squilibrio mentale. Per quanto riguarda invece le sue teorie sul teatro
della crudeltà, esse appaiono un'assurdità, inoltre le ho potute leggere solo
in versione tradotta. L'etichetta di "artaudiano" mi è stata
conferita in seguito ad alcune critiche uscite sui giornali successivamente
alla rappresentazione di Jashûmon durante una mia tournée europea. Cominciò
così a circolare l'idea che fossi un seguace di Artaud, antipodico a
Grotowski...
Si sono fraintesi i miei propositi. Ciò
che intendo fare non consiste nel riprodurre Artaud ma più semplicemente
nel realizzare un progetto che anche
egli desiderava mettere in pratica: l'unificazione di palcoscenico e platea,
del mondo reale e quello della fantasia; ottenere il contatto diretto con il
pubblico, tutto questo
indipendentemente da Artaud.
Finché il contatto si limita ad una carezza viene accettato dal pubblico, anzi
piace. Ma se in contatto consiste in uno schiaffo viene considerato da condannare.
Se, al contrario, attore e pubblico devono restare separati, allora non devono
esistere né i baci, né la violenza. Anche Paradise
Now del Living Theatre è
stato considerato da molte persone teatro della crudeltà perché c'erano
contatti fisici tra attori e spettatori, ma si trattava di baci e carezze.
Penso che se all'attore è consentito toccare il pubblico, allora siano lecite
sia le carezze sia le percosse.
Ciò che voglio dimostrare usando rapporti molto crudeli, inoltre, è che nella
società tradizionale la mente è padrona e il corpo è servo. Ma allo stesso
tempo il rapporto può essere rovesciato perché corpo e mente sono legati molto
saldamente. Insomma usando il corpo come medium esprimere la crudeltà insita al
suo interno"[11]
Giustamente
Franco Quadri nota che non si può liquidare l'opera di Terayama sulla base di
canoni occidentali, poiché questi risulterebbero estremamente riduttivi se non
addirittura fuorvianti qualora non si affrontasse il senso globale delle proposte
di Terayama e se ne trascurasse l'innegabile portata ludica[12]. E' bene pertanto prendere queste
critiche per quello che sono, e considerarle come un documento di una lettura
particolare; importanti nella loro qualità di testimonianza di come Terayama
sia stato accolto e "decifrato" in occidente. Si deve tener conto,
infatti che, a rendere difficile un avvicinamento obiettivo ai frutti di una
cultura estranea, oltre all'indubitabile limite imposto dalla differenza di
cultura, contribuisce un altro limite ben più concreto, consistente nella
mancata conoscenza della lingua.
Per ottenere
un'idea più completa dei contatti che possano
aver influito sulla formazione teatrale di Terayama, passiamo ora ad
esaminare il punto di vista soggettivo, ossia i personaggi citati, discussi e
spesso criticati dall'autore stesso nei suoi scritti sul teatro. Una serie di
teorie e uomini di teatro che - per riportare i più citati - partendo dalle
unità aristoteliche arriva a Brecht, Benjamin, Artaud, Stanislavskij, Grotowski.
E' piuttosto
complicato inquadrare precisamente l'influenza che questi personaggi
esercitarono effettivamente su Terayama. Nella maggior parte dei casi, fatta
qualche eccezione per Grotowski, le teorie di Terayama si costruiscono partendo
dalle teorie teatrali di questi autori tramite un processo negativo. Egli analizza e smantella le teorie di Brecht,
Benjamin, Artaud, Stanislavskij. Parte dalla critica e dalla negazione dei
principi espressi da questi autori per spiegare e costruire le proprie teorie.
Questo concetto
potrebbe risultare piuttosto nebuloso, è pertanto utile, per chiarire le idee,
la lettura di alcuni brani tratti dalle teorie sul teatro moderno dello stesso
Terayama riguardo a questi autori.
" [...] Walter Benjamin e Bertold Brecht definiscono il concetto di teatro
come 'arte della riproduzione' [...] e sottolineano l'effetto educativo e la
capacità di influenza del teatro. Il pubblico è 'la parte che riceve' e gli
attori sono 'la parte che dà'. La trasmissione avviene in maniera unilaterale e
lo spettatore non ha la possibilità di prendere parte alla costruzione del
teatro.
[...]Gli spettatori non sono altro che
"guardoni legittimati" e gli attori nient'altro se non mammiferi che
"interpretano" gesti e azioni altrui. Hanno ucciso la realtà
all'interno della rappresentazione e ciò che resta altro non è che la sua
imitazione simbolizzata.
[...]
Senza dubbio è finita l'epoca dell'istruzione tramandata come un antico
patrimonio. Il teatro di riproduzione della realtà, sull'onda del sistema di
Stanislavskij, così come in teatro della non riproduzione, con autori come
Jarry e Ionesco e più tardi Genet, è ormai finito. L'insegnamento brechtiano in
esso contenuto come pure il suo contrario, basato sull'influenza di Arrabal o di Genet, così come l'erotismo e la
crudeltà, non sono altro che realtà imitata, rappresentata da alcuni uomini
sulla scena."[13]
Terayama contesta
a Brecht l'uso della tecnica dello straniamento per cui, grazie a delle
interruzioni intenzionali, il pubblico ha modo di riflettere su quanto sta
osservando. Egli evita in questo modo l'immedesimazione e può istruire il suo
pubblico, lo spinge a "manovrare
il corpo usando la testa; Terayama aspirava, al contrario di Brecht, a "far
lavorare la testa usando il corpo".
Abbiamo visto nel
brano riportato in precedenza quale fosse l'opinione di Terayama nei confronti
del teatro di Artaud. L'unico autore nei confronti del quale Terayama ha
espresso in parte pareri favorevoli e con il quale condivide alcune teorie sul
teatro è Jerzy Grotowski.
"Gli esercizi per gli attori di Grotowski, essendo rivolti ad un loro
scopo precipuo, sono estremamente efficaci. Costituiscono un'ulteriore nazione
interiore nel piccolo universo costituito dal nostro corpo. Essendo
profondamente radicati nella carne dell'attore, essi eliminano tutto il mondo
visibile come un'illusione. Poiché sono coerenti dall'inizio alla fine. [...]
Nella sezione dedicata agli esercizi vocali contenuta in "L'allenamento
dell'attore" del 1966, Grotowski scrive: "Per quanto concerne il
pubblico (in questo caso le persone che non prendono parte personalmente agli
esercizi) esso deve rendersi invisibile e inudibile agli allievi."
[...] Egli ribadisce inoltre che è
sbagliato, da parte dell'attore, preoccuparsi del pubblico durante la
rappresentazione. [...] Se un attore decidesse di rivolgere al pubblico le
proprie attenzioni, in un certo qual modo finirebbe per svendere se
stesso."[14]
Ma anche in
Grotowski nota delle divergenze rispetto alle proprie idee:
"[...]
Per Grotowski lo spettatore non è che un osservatore che si trova all'esterno
di quel piccolo universo circolare che è il teatro. [...] Gli spettatori si
possono correlare con il rapporto tra
Grotowski e gli attori sotto diverse angolazioni ma non sono protagonisti di un
ulteriore rapporto. [...]Grotowski rinuncia completamente alla trasmissione del contatto partendo dal
rifiuto dei principi della realtà quotidiana come cose invisibili e inudibili.
Gli attori si esibiscono ma non interiorizzano, mentre gli spettatori decodificano
la cerimonia di corpi che si verifica sul palco, non come esperienza ma come
conoscenza. In questo modo va sfumando la traduzione di quest'esperienza in
un'altra."[15]
studiando le
opere di Terayama si nota chiaramente come egli abbia estrapolato, dalle teorie
di questi uomini di teatro, alcuni aspetti particolari, letti secondo un punto
di vista del tutto personale.
In termini generali, si può affermare che
Terayama, pur ricavando da altri autori alcuni concetti e alcune forme
espressive, abbia elaborato una idea del teatro del tutto personale, frutto
dell'elaborazione di molteplici variabili: dall'esperienza diretta, alle teorie
teatrali vigenti in Giappone in quel momento, dal background culturale
autoctono, a quello occidentale.
"Noi
consideriamo il teatro come un crimine.
Il nostro
lavoro non si volge verso la rivoluzione del teatro, frusteremo il mondo con la
nostra immaginazione e la nostra rivoluzione
teatralizzata.
Il Tenjô
Sajiki è andato oltre la forma del dramma del passato.
Noi, come
gruppo, riformeremo il mondo attraverso la poesia e l'immaginazione.
Prenderemo
il potere con l'immaginazione!
La troupe
del Tenjô Sajiki si considera l'eretica del mondo teatrale giapponese ed è
orgogliosa di essere un posto in cui si ritrovano coloro che scappano da
casa."
Questo
altisonante messaggio costituisce una sorta di dichiarazione di intenti con cui
il Tenjô Sajiki ha aperto la propria attività. Esso è molto significativo
perché riesce a riassumere molto sinteticamente quella che è stata l'essenza del laboratorio teatrale fondato da
Terayama. Il gioco violento con cui l'immaginazione prende il potere sulla
realtà. E' inoltre importante notare che
i membri del Tenjô Sajiki si definissero: "La troupe eretica del
mondo teatrale giapponese" poiché questa consapevolezza denota chiaramente
la posizione di confine che la compagnia del Tenjô Sajiki assunse
volontariamente nelle proprie manifestazioni. Un atteggiamento che andava oltre
i limiti raggiunti dalle altre compagnie d'avanguardia, per l'estremismo
raggiunto nelle proprie posizioni. Nel 1977 Terayama pubblicò "Gli uomini
del Tenjô Sajiki - raccolta fotografica
del palcoscenico della fantasia". In questo libro scrisse che il Tenjô
Sajiki era stato un caso di cronaca nera.
Gli stessi metodi
di selezione dei componenti della compagnia si sono svolti in modo molto
insolito.
Yokoo e Terayama
pubblicavano degli annunci sui quotidiani nei quali comunicavano di cercare
persone di tutti i generi, uomini, bambini, persone portatrici di anomalie e
deformità, bei ragazzi e belle donne. Coloro i quali rispondevano
all'inserzione venivano sottoposti ad un'intervista nella "Tenda del Sole" (una tenda molto rudimentale
e approssimativa, poiché i membri della compagnia non avevano il denaro
sufficiente a comprare una tenda vera e propria), luogo di ritrovo della
compagnia.
Tra le varie
persone che frequentavano la tenda, i membri del Tenjô Sajiki individuavano con
precisione gli elementi dotati di maggior talento e li invitavano a far parte
della compagnia. In questo modo si andò costituendo un gruppo molto eterogeneo
che comprendeva cinque o sei elementi fissi e un numero variabile di persone le quali prendevano parte alla compagnia solo
temporaneamente.
Nell'analizzare
la serie degli spettacoli prodotti dal Tenjô Sajiki si evidenzia la tendenza da
parte di Terayama a portare in scena individui contraddistinti da deformità
fisiche. Essa si spiega secondo Takatori Takeshi nei seguenti termini:
"Nel primo periodo del Tenjô Sajiki facevamo recitare di proposito persone
afflitte da deformità fisiche. Allo scopo di suscitare nel pubblico sentimenti
di repulsione e spavento nel vedere che le varie parti del corpo siano
differenti da persona a persona."
Uno degli scopi
che il Tenjô Sajiki si proponeva era dunque quello di smuovere le coscienze, di
far riflettere il pubblico, ricorrendo a qualsiasi mezzo; con una particolare
indulgenza verso metodi duri, ricorrendo spesso allo shock e alla violenza.
Osservando gli
spettacoli del Tenjô Sajiki si nota una chiara linea di evoluzione.
I primi spettacoli seguono lo schema degli spettacoli tradizionali. Pur essendo
nei contenuti piuttosto stravaganti e innovativi, essi conservano infatti una
trama e soprattutto un copione da seguire.
La linea di evoluzione risulta molto evidente e interessante da seguire poiché
quasi tutti gli spettacoli che il Tenjô Sajiki rappresentò nel corso della
propria attività (ad esclusione di "La lettera di Sagawa" scritto da
Kara Jûrô e "Cent'Anni di Solitudine" tratto da un romanzo di Gabriel
Garcia Marquez) sono stati scritti e diretti da Terayama. Essi erano pertanto
studiati su misura per il Tenjô Sajiki, a servizio delle esigenze e,
soprattutto, della visione del teatro della compagnia.
Nel primo spettacolo della compagnia, "Il Gobbo di Aomori",
Terayama, come provocazione, volle
inserire all'inizio dello spettacolo alcuni elementi distintivi del momento di
apertura del sipario nel teatro dello Shingeki.
Nel brano
seguente Terayama ci fornisce un quadro della situazione da cui scaturì il
primo spettacolo della compagnia.
"In quel periodo venivano spesso a farci visita vari personaggi come ad
esempio Ogura Yoshi. Tra costoro, individuavamo con cura le persone dotate
di talento e le invitavamo a far parte
della compagnia. Il nostro gruppo è
nato in questo modo. Il
primo allestimento de "Il Gobbo di Aomori" risale a quel periodo.
Anche nel caso di questa rappresentazione abbiamo allestito lo spettacolo
utilizzando al suo interno il naniwabushi[16], abbiamo issato un nobori e suonato il
campanello. Nonostante l'uso di queste pratiche è venuta fuori una forma del tutto diversa dal cosiddetto Shingeki.
In questo avevamo raggiunto il nostro obiettivo."[17]
Abbiamo
un'ulteriore fonte riguardo la rappresentazione del "Gobbo di Aomori"
si tratta del resoconto, riportato da Kishida Rio, il quale aveva avuto modo di
assistere alla prima, tenutasi nella hall del Sôgetsukaikan.
"Ero tra il pubblico il giorno della prima e ho avuto la sensazione di
assistere a qualcosa di importante. La
protagonista femminile, "Taishô Matsu", una liceale di 18 anni che
cantava un "naniwabushi", era rappresentata da un uomo. Durante
questo spettacolo un personaggio gobbo elargiva saluti a profusione e
dall'interno si diffondeva il profumo di bastoncini di incenso. Avevo
l'impressione di stare leggendo un articolo di cronaca locale sui casi di
persone scomparse del "Yorozu Chôhô". Esprimo questa impressione
dovuta al fatto che nel "Gobbo di Aomori" si ripetevano, come un enigma irrisolvibile, abbandoni e omicidi di bambini. Ho pensato che "Il
gobbo di Aomori" potesse costituire una sorta di scontro gemello tra
teatro e crimine."[18]
Si nota nella
descrizione riportata in questo brano la presenza di alcuni elementi tipici del
teatro giapponese tradizionale oltre a quelli già citati riferiti allo Shingeki. Tra questi spiccano il
naniwabushi e la presenza di un uomo nei panni della protagonista femminile.
Gradualmente gli
spettacoli del Tenjô Sajiki andarono assumendo una connotazione sempre più
libera da qualsiasi regola e schema prefissati. Si formò così un genere di
teatro che risultasse libero da testi e sceneggiature; una sorta di happening in cui l'importanza del
pubblico per lo svolgimento dell'azione raggiunge il livello di quella
rivestita attori.
Terayama racconta
che il motivo per cui il Tenjô Sajiki iniziò ad organizzare spettacoli
servendosi della presenza attiva del pubblico ha origini del tutto casuali.
"Faccio riferimento ad una parte della prima rappresentazione del Tenjô
Sajiki di "I tempi a cavallo
dell'elefante circense", avvenuta nel 1969. La rappresentazione si teneva in un piccolo teatro. Un giorno la
palla, che inizialmente era stata ideata per essere usata esclusivamente dagli
attori, per un lancio sbagliato finì in platea. Da quel giorno divenne una
formula regolare far presentare lo spettatore che prendeva la palla. Così, ogni
giorno, "abbiamo avuto la possibilità di vedere il volto del pubblico".
Questo, per quanto riguarda il teatro, non si limita al giorno in cui abbiamo
trovato questo nuovo metodo, per gli interpreti un piccolo errore di mira si
era trasformato in una nuova esperienza.
Gli
spettatori che fino a quel momento, nell'oscurità, come una massa anonima,
aspecifica e giudice, oppure come guardoni, non avevano mai mostrato veramente
il loro aspetto reale, ora finalmente mostravano il loro volto."[19]
Questa esperienza
rappresentò il primo passo nel processo evolutivo che avrebbe portato, nel giro
di pochi anni, alla creazione di forme teatrali del tutto originali:
"Un teatro di strada, un teatro senza
attori, un teatro in cui chiunque è attore, un teatro telefonico, porta a
porta, un teatro epistolare, e così via."[20]
Seguendo questo
percorso il Tenjô Sajiki è arrivato a produrre spettacoli in cui gli unici
attori erano costituiti da gente comune che "recitava" seguendo a
soggetto un copione costituito da alcune lettere che ricevevano a casa.
"Questo tipo di "teatro epistolare" è stato "recitato"
nell'aprile del 1975 basandosi sugli abitanti del quartiere Suginami di Tôkyô.
Il
"teatro" era stato suddiviso in sette tipi:
- "Far incontrare degli
sconosciuti";
- "Copioni fatti recitare a famiglie
contattate per posta";
- "Vita quotidiana dei singles di
mezz'età";
- "Lettere inviate ogni giorno alla
stessa ora dal solito ignoto";
- "Preannunciare la propria visita della
settimana successiva";
- "Cartoline postali di
auto-presentazione un gruppo per volta", e così via.
Per esempio
nella performance, "Tutti
insieme" 50 famiglie di una data regione vengono contattate con il
seguente messaggio: "Abbiamo in
custodia i vostri oggetti smarriti. Per poterveli restituire, dovrete portare
con voi il vostro timbro personale[21]
e questa cartolina, e venire a prendere la successiva.
20 Aprile del cinquantesimo anno dell'era
Shôwa, ore 13.
Parco di Tôritsu Senfuku Teragawa nel
quartiere di Suginami, centro di
restituzione oggetti smarriti, direttore dell'ufficio restituzioni."
Così in una
serena domenica pomeriggio, le persone venute a riprendersi i loro
"oggetti smarriti" si radunarono nel parco.
Arrivate
nel posto concordato non trovarono nessuno, solo una scrivania e una sedia.
Gli ignari,
arrivati a questo punto iniziarono a pensare ai loro oggetti smarriti, e si
lambiccavano il cervello cercando di ricordare cosa potessero aver perduto.
Questo
teatro trasforma le persone che si sono avviate dalle loro case rimuginando sui
loro oggetti smarriti in personaggi: è un monologo a soggetto.
Ristabilita
l'armonia tra esperienza immaginaria e vita reale, il teatro nasce dalle
riflessioni fatte su questi oggetti smarriti.
Osservando gli
spettacoli rappresentati dal Tenjô Sajiki si ha la sensazione che essi siamo
collegati, nella loro eterogeneità, da un sottile denominatore comune. Esso è
costituito dalla forte personalità di Terayama che ha impresso alla compagnia e
ai loro spettacoli la sua qualità di mago e manipolatore della realtà. La
drammaturgia di Terayama pone le sue
basi proprio sull'invasione della realtà da parte della finzione.
L'enorme
importanza rivestita da Terayama all'interno della compagnia è sottolineata
dallo scioglimento del gruppo due mesi dopo la scomparsa di quest'ultimo.
Data l'importanza
rivestita, nella carriera teatrale di Terayama, dalle tournée all'estero è
opportuno dare uno sguardo di insieme agli articoli di critica, scritti
riguardo ai suoi spettacoli, pubblicati sia dai quotidiani sia dalle riviste
teatrali.
Risulterebbe
estremamente arbitrario riassumere i vari articoli o anche le singole opinioni
su determinati aspetti delle rappresentazioni del Tenjô Sajiki redatti dalla
critica occidentale. Questo perché, molto spesso i critici, hanno espresso il
loro parere in maniera molto concisa, con frasi che lasciano adito a diverse
interpretazioni. Risulta pertanto maggiormente opportuno riportare alcuni brani
significativi, così come sono stati stesi dai loro autori.
Gli articoli a
nostra disposizione abbracciano un arco di tempo che va da 1969 - anno in cui
il Tenjô Sajiki effettuò la sua prima apparizione internazionale agli
Experimenta di Francoforte - al 1980, anno dell'ultima Tournée effettuata negli
Stati Uniti.
Il primo degli
articoli a nostra disposizione, in senso cronologico, è stato scritto da
Giuseppe Bartolucci e pubblicato sulla rivista "Sipario" in occasione
della terza edizione del festival Experimanta di Francoforte. Bartolucci, prima
di inoltrarsi nella descrizione dei singoli spettacoli partecipanti al
festival, traccia un quadro generale che aiuta a mette in luce l'immagine del 'nuovo teatro europeo' emergente dalla
manifestazione. Questa analisi risulta molto interessante perché rispecchia, da
un lato, alcuni aspetti della
situazione del teatro giapponese e contribuisce, dall'altro, a chiarire le
ragioni del grande interesse suscitato da Terayama nel contesto della critica
occidentale.
"La terza edizione di Experimenta 3 a Francoforte, [...] può essere
classificata all'insegna della crisi della scena europea e non soltanto
europea, nel momento in cui la consapevolezza dell'impossibilità di fare nuovo teatro al di dentro dei teatri si allinea con le difficoltà di agire in
maniera nuova al di fuori dei teatri, intendendosi qui per nuovo una complementarità di materiali e di idee, su un'offerta
radicalizzata non tanto di prodotto quanto di azioni."[22]
Terayama portò al
terzo Experimenta gli spettacoli "Inugami"
e "Kegawa no Marî"
(Maria delle pellicce)[23].
Il commento
espresso da Bartolucci su questi spettacoli
si mantiene su toni abbastanza generici. Egli non specifica, infatti,
neppure il nome degli spettacoli del Tenjô Sajiki, limitandosi a descriverne
per sommi capi le caratteristiche salienti.
"[...] Lo spettacolo del Teatro Teniyo Sejiki[24] di Tokio si configura come un'esperienza
espansa. Il gruppo giapponese, per un verso, sul piano dell'eleganza mimetizza
una influenza occidentale-americana, in virtù di un'associazione di sogni-fatti
positivamente immaginaria; per l'altro verso, sul piano della verità,
costruisce una parabola dove un tracciato parola-gesti estremamente preciso
vien corredandosi di qualità popolari e di condizioni intellettuali. Ne viene
una mescolanza di vecchio e di nuovo, di coltivato e di istintivo che
costituisce la caratteristica più aperta e corretta del gruppo; ed è il loro
stare assieme e capirsi, a provocare simpatia e conoscenza, addestramento e
pienezza di vita. E' inevitabile a questo punto che ci ritorni innanzi lo
spettro della crisi della scrittura scenica, nel momento del suo definirsi
"intrinsecamente" al "di dentro", e cioè del suo occuparsi
di derivazioni culturali e di significazioni sceniche, fidandosi della maggiore
o minore consapevolezza di lavoro ed organizzazione di procedimento; è per
altro chiaro che, per questo gruppo, non costituisce questa progettazione un
alibi professionale, un'arma di difesa rispetto ad intenzioni di altri
apparentemente radicali e poi smentite regolarmente dalla realtà. Qui riposa il
meglio di Experimenta 3: in una elaborazione espansa della struttura scenica,
fuori della tradizione del nuovo, pura e semplice, fuori anche dalla
radicalizzazione che non sia mediata culturalmente, con una diffidenza del
"di fuori" giustificabile, nella misura in cui il riferimento è ancora
valido "di dentro"."[25]
Da questa
relazione piuttosto nebulosa si possono estrapolare almeno due caratteristiche
del Tenjô Sajiki apparse agli occhi di Bartolucci: la prima è il riscontro di
un'associazione sogno-realtà quotidiana a cui l'autore dell'articolo attribuisce
una derivazione "occidentale-americana"; in effetti, qualunque sia la
sua derivazione, è senz'altro presente
nelle opere di Terayama, un uso molto frequente del binomio fantasia - realtà quotidiana. La seconda
caratteristica rilevata in maniera sufficientemente evidente da Bartolucci è
costituita dal connubio tra tradizione e novità e tra "coltivato" ed
"istintivo", accettabili qualora, per "coltivato ed
istintivo", Bartolucci abbia inteso: "studiare una strategia" e, al tempo stesso, "lasciare ampio spazio
all'improvvisazione".
Franco Quadri a
proposito della partecipazione di Terayama al terzo Experimenta nota che la sua
apparizione non suscitò in maniera evidente l'attenzione della critica
occidentale. L'apparizione sulla scena europea che rivelò Terayama e la sua
compagnia risale, a quanto afferma Quadri, al 1973. In quell'anno il Tenjô
Sajiki portò al Festival di Nancy, e successivamente in tournée nelle altre
maggiori città europee, lo spettacolo Jashûmon
(gli eretici).
"L'apparizione di Terayama al Festival di Nancy nel '73 si può paragonare
al boom di Rashomon che rivelò nel
'51 il cinema giapponese, imponendosi alla Mostra di Venezia. Del teatro
giapponese, prima di allora, non si era mai visto in occidente nessun lavoro
che esulasse dalle forme canoniche del kabuki e del nô. [...] E' a Nancy che [Terayama] viene elevato a fenomeno, aprendo anche la strada europea alla scena
nipponica; e da allora si può cominciare a costruire una sua storia che si
allaccia con la nostra."[26]
In ogni caso bisogna
ricordare che quella agli Experimenta di Francoforte non fu la prima
rappresentazione di Jashûmon in Europa. Già nel 1971 la compagnia del Tenjô
Sajiki aveva rappresentato questa stessa pièce a Belgrado, nel corso della
quinta edizione del BITEF (festival internazionale del teatro di Belgrado).
Segue il resoconto dello spettacolo, pubblicato da Peter Ansorge sulla rivista Plays and Players.
"[...] A show I don't intend to skip, turned out to be the performance
most in tune with Belgrade's high expectations of their visiting companies. The
controversies raging in the city were all but forgotten as the Yugoslavs gave
vent to their enthusiasm for a startling production that had originated in, of
all places, Tokyo. [...] The Tenjô Sajiki troupe led by the healthy and smiling Japanese director Terayama
Shûji. These Orientals have declared war on the traditional Japanese theatre
(Terayama says he doesn't understand the word 'tradition') and are practically
outlawed in Tokyo."[27]
Contrariamente a
quanto sarebbe avvenuto al festival di Nancy due anni più tardi, a prescindere
dal parere favorevole espresso dalla critica, l'accoglienza ufficiale da parte
dell'ambasciatore giapponese che Terayama ricevette a Belgrado non fu tra le
più calorose.
"Unlike the American and English groups at BITEF 5 Terayama's troupe had
received no backing for its Belgrade visit. The Japanese ambassador in Belgrade
refused to acknowledge Terayama's existence in Yugoslavia. One reads Terayama
once organised a performance in Tokyo that led to the police chasing actors and
audiences through the streets as part of the show."[28]
L'episodio di
questo piccolo 'incidente diplomatico' tra il Tenjô Sajiki e l'ambasciatore
giapponese, verificatosi in un paese straniero, rende ancora più stridente il contrasto tra il
trattamento che Terayama ricevette in patria e quello che godette all'estero.
E sottolinea, una volta di più, i
problemi che già nel 1971 Terayama potesse incontrare nell'allestimento di
spettacoli in Giappone.
Per tornare alla
rappresentazione di Jashûmon, è
interessante confrontare il resoconto dello spettacolo rappresentato a
Belgrado, scritto da Ansorge, con quelli dello stesso Jashûmon rappresentato a
Nancy, redatti da Franco Quadri ed Alan Seymour.
Ansorge descrive
lo spettacolo di Belgrado nei seguenti termini:
"Terayama's production of Heretics
at Belgrade began from the moment that the audience entered the normally
inviting auditorium of the Atelje 212. In pitch blackness, with incense
smouldering from the stage, the well-dressed
and confused Belgrade public tried vainly to find their right seats. It wasn't
only the darkness that made this a problem - actors dressed as black-robed
puppeteers were stalking rather ominously with threatening white sticks over
and on top of the seats."[29]
La descrizione
della prima parte dello spettacolo effettuata da Ansorge concorda con quanto
riportato da Quadri. Anche se quest'ultimo tende a sottolineare maggiormente
l'aspetto bellicoso dello spettacolo.
"Jashûmon imponeva soprattutto l'immagine
di una cerimonialità violenta e aggressiva fino allo scandalismo, già
dall'inizio quando gli spettatori, provati dalle ore passate in coda per
guadagnarsi il posto, si trovavano immersi in una sala solo flebilmente
rischiarata da poche candele, minacciati dalle imprevedibili scorrerie di
gruppi di omini seminvisibili, gli attori tutti in nero scatenati in piena
azione nei corridoi di platea. E poi prima che potessero riprendersi, questi
spettatori erano sottoposti a bombardanti attacchi concentrici alla loro
sensibilità, tali da tenere in costante allarme [...]"[30]
Riguardo a queste
brusche sollecitazioni, rivolte a mantenere sempre vigile l'istinto di
conservazione del pubblico, scrive in maniera molto colorita anche Alan
Seymour.
"'Fascism' is a term so used one tries not to use it, but a more naked
example of it would be hard to find, for this is the almost pure example of a
group imposing its 'philosophy' by outright force. It is too facile to say, as
some apologists have said, that the group members are also 'hard on themselves'
during performances."[31]
La descrizione
del seguito dello spettacolo, grossomodo, coincide in tutte e tre le versioni.
L'articolo di Peter Ansorge è tra i tre quello più accurato e preciso, include
tra l'altro una spiegazione storica all'uso dalla figura degli eretici.
"On the stage a girl was being crucified to throbbing music and an
orgiastic red light. Terayama's show describes the pangs of a group of heretics
who were suppressed by the Japanese government two centuries ago for seeing
'visions'. The puppeteers, borrowed from the Bunraku, represent the authorities
who are out to control and stamp on the visionaries. But the troupe uses every
means, modern and traditional, to conjure up their enthralling visions. A boy moves through the auditorium, climbing
over seats and people, in pitch dark with only a yellow lantern to guide him.
As he reaches the stage we see his mother's shadow on a screen. Then to rock music and a dazzling strobe light we see him
attacking an imprisoning the old woman. Meanwhile a Lady Macbeth figure prances
round a witch's cauldron. The production is highlighted by the weirdest music,
a compound of rock and old Japanese sounds - and a quartet of frightening
tapestries are frequently illuminated in the darkened theatre to underline the atmosphere of frenzy and torture. The
heretics have a final song when the incense
is let out of the theatre - for which the Atelje's sliding roof came in
for a very appropriate round of applause, as it opened to let in fresh air and a starlit night sky. At the climax the actors take down all
the scenery and speak to the audience with their own personalities - of the
need to destroy every form of authority. All this would be distressingly
familiar were it not for the fact that
Terayama has related these old heretics of Japanese tradition to the world's modern heretics, perhaps to the problems
of his own theatre troupe in Tokyo, by casting contemporary sounds, lighting
and characters against the background of a formal Japanese narrative. It would
certainly be worth seeing the impact of this troupe at our own World Theatre
Season, rather than another well-intentioned but predictable week of all
those Kabuki and Noh techniques - which
may make for interesting, but hardly relevant theatre."[32]
Una nota degli
incidenti causati nel corso delle rappresentazioni di Jashûmon in Germania è riportata molto diffusamente dallo stesso
Terayama in, Engeki Ronshû. (Vedi
pagg. 156-176).
Oltre a Jashûmon,
il Tenjô Sajiki rappresentò a Nancy il suo primo spettacolo di strada, Ninriki Hikôki Saromon (L'aereo Salomone
a propulsione umana). Questo spettacolo si proponeva di generare, all'interno
di una qualsiasi nazione, un nuovo stato nel giro di dieci ore a partire da una
piantina di mele, "Il passato è
irreale".
La rappresentazione, purtroppo, fu
rovinata in parte dal maltempo. Nonostante le avversità atmosferiche, comunque,
lo spettacolo riuscì a compiere il proprio corso.
"[L'aereo Salomone a propulsione umana] spostava del tutto il suo campo
d'orizzonte, cercando di inventare mediante il moltiplicarsi avvolgente
degl'interventi degli attori il secondo piano di una quotidianità costruita
accanto e attorno al procedere normale della vita della città: "A poco a
poco si crea sotto i nostri occhi un paese che non esiste, con le sue leggi,
che avrà dieci ore di esistenza sull'asfalto. [...] In realtà nei misteriosi
giochi cifrati di quell'invasione gialla si leggeva la parentela con certe
provocazioni neodadaiste del gruppo Fluxus di New York. E nella pianificazione
pedante dell'event non arrivato a realizzazione ma comunque esistente in quanto
predeterminato con precisione sulla carta, si poteva cogliere una implicazione
concettuale vicina all'operatività di alcuni artisti più vicini a noi nel
tempo."[33]
La successiva
rappresentazione del Tenjô Sajiki di cui possediamo un resoconto scritto da
parte della critica occidentale risale al 1975, quando Terayama e il suo gruppo
rappresentarono, all'auditorio dell'Athenée Français, Môjin Shokan (Una nota di un cieco).
Con questa opera Terayama esplora le possibilità offerte dal buio durante la
rappresentazione scenica.
Vediamo il
resoconto di questo spettacolo, riportato da Patricia Marton.
"In Blind Man's Letter, Shûji
Terayama continues his experimentation in breaking away from the classical
theatrical space. [...] The intent of the play was to show that light exists
within darkness - in this case, blindness. An actor from Terayama's Tenjô
Sajiki expressed the feeling of the
piece at one point by saying: "Don't look with your eyes, look with your
whole self." The strands of the
"story", more like visual poetry, developed around the slight theme
of a blind child who is abandoned by its mother, later confronting her when an
adult, after being raised by blind amma
or masseurs."[34]
Anche in questo
caso l'aspetto che, maggiormente viene sottolineato dalla critica è costituito
dalla stravaganza dei metodi usati e dal contatto piuttosto movimentato con il
pubblico.
"Phosphorescent images, glowing like jewels, radiated about the darkened room (representing a labyrinth)
between periodic blackouts. The spectators, packed shoulder-to-shoulder between
the various eye-level and overhead acting areas, were forced to be continually
alert to absorb this battery of vignettes. [...] At one point an actress was
flung off the hanamichi, breaking the
nose of one of the spectators with the impact of her head. [...] Five
white-garbed amma standing for the
blind man, first appearing on a side platform in dirge-like music, they served
as a motif throughout, crawling about the auditorium, often shouting and holding candles and matches in
the eyes of the audience."[35]
L'analisi
compiuta dalla Marton risulta attenta e puntuale. Riesce difatti a rintracciare
alcuni dei punti chiave della tematica teatrale di Terayama ed in particolare
la Marton compie osservazioni molto pertinenti riguardo il rapporto tra realtà
e finzione e riguardo la volontà di ottenere l'indipendenza degli attori da
autore e regista.
"During these periods, Terayama and his
stagehands (stationed behind a screen near the entrance) exchanged instructions volubly - "breaking the
boundaries between fiction and reality". [...] the cast and crew did not
confine themselves to the playing areas or backstage for the same reason, but
roamed about, continuing Terayama's policy of harassing the audience via
"coincidental confrontation." At one point, a stagehand sat down on this writer and refused to move;
after repeated efforts, verbal and physical, she finally managed to shove him off."[36]
Môjin Shokan appartiene alle opere ideate nel corso
della prima fase di sperimentazione compiuta dal Tenjô Sajiki; in questo
periodo il testo, sui cui si basava lo svolgimento della rappresentazione, aveva
ancora un ruolo dominante. E' interessante riportare anche la descrizione delle
scene dello spettacolo, ricche di simboli e astrazioni.
"After [the ammas] initial
entrance a tall man in black top hat and frock coat trod slowly down a hanamichi, which stretched the length of
the auditorium. At its far end, a nude woman flashed subliminally in and out a
trapdoor, while a man cycled torpidly on an overhead ramp. To the left of the hanamichi, on a low platform, a
transparent tomb containing white-faced immobile figures like broken dolls was
lit from within; the amma then took
it apart. A girl in blue body paint crouched inside a glistening red case on a smaller platform nearby, while toward
the front stage, two uniformed schoolgirls played cat's cradle with a piece of
elastic. Then a girl in pink kimono (the blind child grown to adulthood)
advanced somnolently through a structure of silver blocks to chanting music,
confronting her purple-kimonoed mother in the center of the hanamichi. (Here the irate mother
enveloped her child with a web of paper streamers similar to that tossed by the
villainous spider in the Noh and Kabuki dance-dramas.) Afterwards, the girl
writhed to a palpitating lavender light. Suddenly, an apocalyptic vision of
supernatural creatures bathed in red and blue spotlights appeared to her side.
In the dreamlike finale, cast and crew gathered together on a front platform
engulfed by clouds of white smoke. (The smoke also filled the auditorium,
causing many in the audience to choke.) a musical background combining
electronic sounds, old instruments, and a wailing chorus rose and fell
throughout the performance, adding to the desolate and eerie mood."[37]
In contrasto con
questa descrizione appare la sintetica analisi di Franco Quadri, il quale liquida
questo spettacolo limitandosi a dichiarare che esso si basa sull'assenza vera e
propria della rappresentazione, per un pubblico "rinchiuso in un ambiente da cui avrebbe cercato fin dal principio
di uscire, per trovarsi invece imbottigliato, a gruppi o singolarmente, in una
serie di situazioni labirintiche." In questo caso, l'attenzione di
Quadri è puntata essenzialmente sull'ambiente claustrofobico, senza il fornire
il minimo accenno alle qualità strutturali e semantiche della rappresentazione.
Molto
interessante appare la descrizione dello spettacolo Ahô Fune (La nave dei pazzi), rappresentato dal Tenjô Sajiki
all'ormai estinto Festival di Shiraz, nel 1976. Sebbene Ned Chaillet, autore
dell'articolo apparso sulla rivista "Plays and Players", tenda inizialmente
a leggere gli aspetti più violenti di questa rappresentazione in chiave
artaudiana (l'articolo di Chaillet è scritto inquadrando Artaud come filo
conduttore, unificante tutti gli spettacoli rappresentati a Shiraz nel corso
del Festival del '76), egli conduce, in seguito, un'analisi critica della
rappresentazione concisa ma, al tempo stesso, ricca di spunti e di riferimenti
che concordano con gli effettivi obiettivi e le effettive intenzioni di
Terayama nei confronti del pubblico; se possiamo basarci, per poter giudicare,
sullo studio delle sue teorie teatrali riportate in Engeki Ronshû.
"More successful as an Artaudian experience was
Terayama's Ship of Fool, which again committed many of its cruelties through
decibel amplification, this time of Japanese rock'n'roll, but the odd,
personally symbolic, actions had a hypnotic effect, and it was that production
which drew people back again and again to witness its tricks."[38]
Sempre nello stesso
articolo, segue una considerazione molto importante, fondamentale per poter
comprendere il teatro di Terayama: sarebbe del tutto inutile eseguire una lista
delle azioni che si susseguono in sala poiché ciò che conta nell'opera di
Terayama non è la trama in sé, bensì l'effetto che essa provoca sul pubblico.
La reazione emotiva del pubblico è del
tutto indipendente dalla trama dello spettacolo, essendo essa cagionata
piuttosto dalle sollecitazioni visive e soprattutto sonore a cui gli spettatori
sono incessantemente sottoposti.
Risulta
interessante anche il parallelo con la produzione cinematografica di Terayama,
tessuto da Chaillet, riguardo al ribadimento di alcuni temi ossessivi.
"As in his films, he turns to themes of violent personal liberation, but
presents characters who are dolls, or who are manipulated by black-hooded
puppeteers. [...] When we see personal revolutions they promise no peace: when
a man who is continually falling asleep murders his sleeping self he is robbed of sleep."[39]
Estremamente
interessante risulta anche l'analisi conclusiva.
"Terayama presents personal confusions disguised as beliefs but the
overriding theatricality of his work gives his productions a vivid life and the
questionable intellectual content becomes irrelevant in the chaos of events.
Although derivative, he is a major talent as a director; his skills include a
wonderful manipulation of space, and a contemptuous manipulation of audience.
But one can depart from the flames, noise and violent imagery of his work with
some sense of having witnessed a nightmare, and with memories which do not go
away."[40]
Il commento
palesemente positivo di Chaillet si conclude con una nota di rammarico per il
fatto che un'artista come Terayama non fosse ancora apparso in Inghilterra.
L'ultimo
spettacolo del Tenjô Sajiki di cui abbiamo a disposizione materiale critico
occidentale è Nuhikun, tradotto in
inglese come Directions to Servants,
facendo un chiaro riferimento all'omonima opera di Jonathan Swift. In effetti, nella
stesura di questo suo capolavoro Terayama si era ispirato, sia pur molto
liberamente, a Swift - autore che egli amava moltissimo per la sua pungente e
dissacrante ironia. Già in precedenza egli si era ispirato ad un'utopia
swiftiana, nell'opera Cloud Cuckooland.
Prima di passare
ad esaminare l'opinione della critica occidentale, ritengo opportuno prendere
visione della dichiarazione dello stesso Terayama riguardo al debito di
quest'opera nei confronti di Swift, rilasciata nel corso l'intervista concessa
a Kitagawa Takanobu.
"Spesso mi viene imputata un'influenza da parte di Swift ma questa
affermazione non ha ragione di esistere. Questa affermazione si chiarisce
leggendo Nuhikun. Esso rappresenta
una sorta di frutto germogliato da alcuni appunti presi da Swift. Nello
spettacolo mancano quasi del tutto delle analogie con questo autore. La
questione che egli abbia inteso lasciare un precetto alla servitù, cioè che
egli abbia scritto il romanzo con il proposito di impartire dei comandi è del
tutto assente. Perché a quell'epoca il suo lavoro era subordinato alla sua
posizione, l'unico modo per sopravvivere era quello di adulare un potente. [...] Directions
to Servants è un romanzo costituito da molti brevi episodi, ho pensato di
prendere spunto da due o tre di questi, e di ampliarli secondo le nostre
esigenze. In una situazione in cui il padrone è assente come nel caso di Nuhikun;
o ancora una in cui manca del tutto una ragione, come in Remingu Kabenuke no Otoko; oppure nel caso di una assoluta mancanza
del centro come in Cent'Anni di
Solitudine, il problema centrale si può correlare alla posizione della
gente comune nei confronti del nucleare. La gente è divisa tra l'orrore e
l'attrazione nei confronti di questa energia in grado di sterminare un numero
enorme di persone con una sola arma.
Quello riguardante il nucleare è un grande problema. Non è così facile
risolverlo. Perché se il nucleare venisse eliminato allora si dovrebbero
eliminare anche la ragione, la legge, e il linguaggio. Sarebbe come se andassimo
ad assistere ad un incontro di catch in cui l'arbitro, invece di rappresentare
la giustizia, si distraesse in continuazione guardando altrove e alla fine
decidesse il verdetto attribuendo la vittoria a caso."[41]
Da questa
dichiarazione, peraltro piuttosto nebulosa, si capisce che, indipendentemente
da Swift, Terayama intendeva esplorare la situazione di 'assenza del Padrone', che fosse esso una persona fisica, sia
un'energia, desiderabile e funesta al tempo stesso, quale può essere l'energia
atomica.
Dopo questa
premessa riguardante il punto di vista soggettivo dell'autore, passiamo ad
esaminare le impressioni che Nuhikun
suscitò in occidente.
Le fonti a cui è
possibile risalire sono due: la prima è una fonte italiana; risale al 1979,
anno in cui il Tenjô Sajiki portò questo spettacolo al Festival dei due Mondi
di Spoleto. L'altro articolo è stato pubblicato su TDR nel 1981, in occasione
dell'ultima tournée di Terayama negli Stati Uniti.
L'articolo di
Gianni Manzella pubblicato sul Manifesto
il 15 luglio 1979, in occasione della partecipazione di Terayama al festival di
Spoleto, si sofferma soprattutto sulla descrizione delle azioni che si
susseguono in Nuhikun. Leggendo
questo brano si ha l'impressione che esso sia dirottato verso una chiave di
lettura che dà adito a considerazioni eccessivamente legate ad 'un'ideologia di sinistra':
"All’origine
c’erano le ‘Istruzioni ai servi’ di Jonathan Swift, quasi un “manuale di
sabotaggio ad uso delle classi subalterne” che qualcuno, chissà perché, legge
in chiave aristocratica e un po’ reazionaria, forse perché l’editore postumo si
cautelava indicandone lo scopo nell’esporre ‘Le scelleratezze e gli inganni’
dei servitori verso il padrone. [...] All’origine dello spettacolo che S.
Terayama ha portato al festival di Spoleto, Directions
to Servants, appunto, sta questo testo di Swift. Quelli sono i
protagonisti, maggiordomi, cuochi, valletti, cocchieri, stallieri, cameriere,
lavandaie, governanti, bambinaie e lo stesso Swift, almeno pare, che se ne sta
immobile su un palchetto a sognare più che a scrivere. Ma qui finiscono anche
gli agganci diretti. Questi servitori seminudi e con la testa rasata, una volta
richiusasi alle lor spalle la porta pesante che sta sul fondo, si trovano
reclusi in un antro claustrofobico, sotterranei del palazzo o camere della
servitù, che inevitabilmente rinviano a de Sade e a Von Masoch. Strumenti di
tortura sono certo le “macchine inutili” vagamente duchampiane che qua e là
appaiono sulla scena, come quella che proprio all’inizio sembra capace di
trasformare in padrone l’uomo nudo, applicandogli baffi e altri accessori, o
quella che prende a calci il ‘servitore’ agli ordini della voce del ‘padrone’
che proviene da un registratore.
Perché il
padrone è assente, o forse nascosto tra i servitori stessi, che a turno ne
assumono le vesti e le funzioni, lo cercano con un metodo classico del tempo di
Cenerentola, quello della scarpa che va bene soltanto a lui.
[...]Se per anni il gruppo di Terayama è stato indicato come il Living
giapponese, questa volta la ricerca di facili ed improbabili somiglianze ha
tirato in ballo l'inglese Lindsay Kemp. Ecco infatti che le luci porporine, le
abbondanti fumigazioni (poco importa che di zolfo e non di incenso si tratti),
qualche caduta verso un clima mistico e rituale. Eppure questi effettacci
Terayama sa usarli con un buon cinismo, che imbriglia anche il pubblico in
quella schiavitù teatrale.”[42]
L'articolo di
Maria Myers pubblicato su TDR riporta le note introduttive scritte dallo stesso
Terayama inserite nel programma.
"What I hope to describe in this play is the present situation of the
world, marked by the 'absence of the Master.' Our revolt is not against the
absent Master. 'My enemy is myself.' 'Your enemy is yourself.' 'Every one can
be a Master for 15 minutes.' But when servants try to kill their absent Master,
their venom and hatred create an image of Hell."[43]
Anche la Myers
non può fare a meno di notare la derivazione da Jonathan Swift ribadendo,
comunque, che il tema centrale in Terayama è costituito dall'assenza del
Padrone e dalle inevitabili conseguenze sui servi della mancanza di questa figura.
"La tragedia non è costituita dall'assenza del Padrone ma dal fatto che i
Servi necessitano di un Padrone."[44]
L'articolo della
Myers costituisce una descrizione molto precisa e circostanziata dell'intero
spettacolo, illustrato meticolosamente scena per scena. Naturalmente non è
possibile riportare in questa sede l'intera descrizione. I brani che seguono
sono comunque sufficienti a fornire
un'idea più chiara dello spettacolo.
"Directions to Servants is a
play of images created through the use of exaggerated theatrical elements:
sounds, makeup, costumes, props (including machines as extensions of physical
man), lighting, and at time nonsense dialog. [...] Aural assaults through
language, music and sound - human and electronic - are augmented with visual
images. The circle of light dominates. Terayama defines a single pool of light
as a metaphor for order; whenever there is more than one circle, confusion ensues
and chaos results. [...]
The entire theatre space represents the mansion. Sixteen actors each of whom
represents a specific servant category, are the main characters, which include
a sleeping man, a human dog and a crazy woman who believes she is the mistress.
In the introduction to the program notes the possibility is suggested that the
real Master may be among the servants, playing at being a servant. [...]
Several props consist of intricately designed, finely hand-crafted machines
that serve simultaneously as extensions or incorporations of the physical body
and as instruments of torture. [...] The machine is a metaphor for man's
subordinate condition. [...]
The only prop seen throughout the performance is the Master's shoe. It is a
three-layered red-and-gold representation of a mouth and tongue; i.e., the
word-maker. Whoever is the possessor of this shoe becomes the temporary Master
of the mansion. [...] Elements of overt eroticism, sadomasochism and scatology
appear in Directions to Servants. The
production's images in themselves have little meaning; the intention is neither
the interpretation of an idea nor the transfer of information. Rather, the
theatrical elements become explorations of the mysterious, the
incongruous."[45]
Penso sia
opportuno ribadire che sarebbe molto complicato fornire una descrizione
dettagliata della totalità di quanto è stato scritto dalla critica occidentale
riguardo le opere che Terayama ha rappresentato in Europa e in America; molto
spesso inoltre il reperimento del materiale è molto complicato, trattandosi di
articoli pubblicati su quotidiani stranieri oltre venti anni fa. Pertanto
questo capitolo va inteso come una prospettiva generale della maniera in cui la
critica ha accolto questo gruppo di uomini provenienti da un paese reso spesso
ancora più remoto dai pregiudizi e dai luoghi comuni.
Rielaborando i
dati fin qui raccolti possiamo dire che la reazione all'avvento del Tenjô
Sajiki nei teatri occidentali è stata duplice: da una parte l'accoglienza del
pubblico che, dopo un iniziale entusiasmo (dimostrato dalle lunghissime file ai
botteghini e dai biglietti esauriti), rimaneva affatto sbigottito e in qualche
caso addirittura leso fisicamente da un tipo di spettacolo che tendeva a porre
lo spettatore allo stesso livello dell'attore e non risparmiava il pubblico da
atteggiamenti violenti, dall'altra, al contrario, la critica ha quasi
all'unanimità osannato Terayama come un genio che, partendo da effetti ed
espedienti anche di bassa lega (i quali
non sono che mezzi fisici di per sé privi di valore) arriva, grazie alla
mediazione del subconscio, a un risultato finale che costituisce una grande
magia, in cui egli, nelle vesti di mago-manipolatore, riesce a cambiare la
realtà quotidiana, infondendole la vaga sostanza dei sogni.
[1]Da
Kitagawa Takanobu, "shokugyô Terayama Shûji
- Kyokô ni Ikita Tensai
no Densetsu", Nihon Bungeisha.
[2]Da
Kitagawa Takanobu, "shokugyô Terayama Shûji
- Kyokô ni Ikita Tensai
no Densetsu", Nihon Bungeisha.
[3]Da
Kitagawa Takanobu, "shokugyô Terayama Shûji
- Kyokô ni Ikita Tensai
no Densetsu", Nihon Bungeisha.
[4]Da
Kitagawa Takanobu, "shokugyô Terayama Shûji
- Kyokô ni Ikita Tensai
no Densetsu", Nihon Bungeisha.
[5]Da
Kitagawa Takanobu, "shokugyô Terayama Shûji
- Kyokô ni Ikita Tensai
no Densetsu", Nihon Bungeisha.
[6]Da
Kitagawa Takanobu, "shokugyô Terayama Shûji
- Kyokô ni Ikita Tensai
no Densetsu", Nihon Bungeisha.
[7]Da
Kitagawa Takanobu, "Shokugyô Terayama Shûji
- Kyokô ni Ikita Tensai
no Densetsu", Nihon Bungeisha.
[8]Nel
testo originale Kajiya.
[9]Da
Terayama Shûji,
"Engeki Ron Shû", Kokubunsha, 1992.
[10]Takatori
Takeshi, "Terayama Shûji ron", Shichôsha.
[11]Kitagawa
Takanobu, "Shokugyô Terayama Shûji
- Kyokô ni Ikita Tensai
no Densetsu", Nihon Bungeisha.
[12]Franco
Quadri, "Il teatro degli anni settanta - Invenzione di un teatro
diverso.", Einaudi 1984.
[13]Terayama
Shûji,
"Engeki Ronshû", Kokubunsha, 1992.
[14]Terayama
Shûji,
"Engeki Ronshû", Kokubunsha, 1992.
[15]Terayama
Shûji,
"Engeki Ronshû", Kokubunsha, 1992.
[16]Naniwabushi
= nome di una forma di spettacolo di massa. In cui un attore raccontava con
strofe molto facili da comprendere accompagnato dallo shamisen.
[17]Kitagawa
Takanobu, "Shokugyô Terayama Shûji
- Kyokô ni Ikita Tensai
no Densetsu", Nihon Bungeisha.
[18]Kishida
Rio in, AA.VV. "Gendai shi no
techô. 11 gatsu kanji sôkan", novembre 1983.
[19]Terayama
Shûji,
"Engeki Ronshû", Kokubunsha, 1992.
[20]Terayama
Shûji
TERAYAMA S. NO GEIJUTSU RONSHû - Pafômansu
no majutsushi, Shichôsha, 1985.
[21]Ogni
giapponese possiede uno speciale timbro con le proprie iniziali in caratteri
cinesi esclusivamente personale e con valore legale con cui, ad esempio, timbra
il proprio cartellino di presenza in ufficio.
[22]G.
Bartolucci in, "Sipario", n° 278-279, Milano, giugno-luglio
1969.
[23]Il
titolo di questo spettacolo è stato tradotto in francese dallo stesso Tenjô
Sajiki come 'La Marie Vison'
[24]Ho
mantenuto la traslitterazione usata nell'originale.
[25]G.
Bartolucci in, "Sipario", n° 278-279, Milano, giugno-luglio
1969.
[26]F.
Quadri, "Il teatro degli anni '70 - Invenzione di Un Teatro Diverso",
Einaudi, 1984.
[27]
"Uno spettacolo che non intendo
omettere, destinato ad essere la performance più
in sintonia con le grandi aspettative di Belgrado nei confronti delle compagnie
ospiti. Le controversie sorte in città
furono completamente dimenticate non appena gli iugoslavi diedero libero sfogo
al loro entusiasmo per una sbalorditiva produzione che aveva avuto origine, tra
tutti i posti possibili, proprio a Tôkyô. [...] La compagnia del Tenjô Sajiki guidata dall'aitante e
sorridente regista giapponese Terayama Shûji.
Questi orientali hanno dichiarato guerra al teatro tradizionale giapponese
(Terayama dichiara di non comprendere la parola 'tradizione') e a Tôkyô
sono praticamente fuorilegge." (P. Ansorge in, "Plays and Players", London, 1971
November)
[28]"A differenza dei gruppi inglesi e
americani al BITEF 5 la compagnia di Terayama non ha ricevuto nessun sostegno
per la sua visita a Belgrado. L'ambasciatore giapponese a Belgrado si rifiutò di riconoscere la presenza di
Terayama in Yugoslavia. Si legge che una volta Terayama organizzò a Tôkyô uno spettacolo che indusse la polizia ad inseguire attori e pubblico
per le strade come parte dello show." (P. Ansorge in,
"Plays and Players", London, novembre 1971.)
[29]
"La produzione di 'Gli Eretici a
Belgrado iniziò nel momento in cui
il pubblico entrava nell'auditorio dell'Atelje 212, solitamente invitante.
Nell'oscurità più totale, con il fumo dell'incenso
che si propagava dal palco, il pubblico di Belgrado, ben vestito e confuso,
cercava in vano di trovare il proprio posto. Non era soltanto l'oscurità a creare problemi, attori vestiti
di nero come burattinai avanzavano lugubremente con minacciosi bastoni bianchi
sopra e in cima alle poltrone." ( P. Ansorge in, "Plays and
Players", London, novembre 1971.)
[30]F.
Quadri, "Il teatro degli anni '70 - Invenzione di un Teatro Diverso",
Einaudi, 1984.
[31]
"Fascismo è
un termine così abusato che si
cerca di non usarlo, ma sarebbe difficile trovarne un esempio più esplicito, poiché questo è
l'esempio pressoché
puro di una compagnia che impone la propria 'filosofia' per mezzo della forza
palese. È troppo facile dire,
come hanno fatto alcuni apologeti, che i membri della compagnia, nel corso
degli spettacoli, anche verso se stessi.
(A. Seymour in,
"Plays and Players", London, 1973.)
[32]
"Una ragazza veniva crocefissa sul
palco sotto una musica vibrante e un'orgiastica luce rossa. Lo spettacolo di
Terayama descrive le peripezie di un gruppo di eretici che furono repressi dal
governo giapponese due secoli fa per il fatto di avere delle 'visioni'. I
burattinai, ripresi dal Bunraku, rappresentano le autorità che controllano e reprimono i
visionari. Ma la compagnia usa ogni mezzo,
moderno o tradizionale, per evocare le proprie affascinanti visioni. Un
ragazzo si sposta per l'auditorio, scavalcando poltrone e persone, nel buio
pesto guidato solo dalla luce di una lanterna. Non appena raggiunge il palco su
di uno schermo appare l'ombra di sua madre. Poi lo vediamo attaccare ed
imprigionare una vecchia sotto una musica rock e un'abbacinante luce
stroboscopica. Nel frattempo una figura alla Lady Macbeth armeggia attorno ad
un calderone. L'opera è
sottolineata dalla musica più
bizzarra, un insieme di rock e vecchi suoni giapponesi - e un quartetto di
orripilanti arazzi viene illuminato di frequente nel teatro immerso
nell'oscurità per sottolineare
l'atmosfera di frenesia e tortura. Gli eretici intonano una canzone finale
quando l'incenso viene lasciato fuoriuscire dal teatro - per cui il tetto
scorrevole dell' Atelje riceve una dovuta girandola di applausi , appena viene
aperto per far entrare l'aria fresca e un cielo stellato. Al culmine gli attori
smantellano la scenografia e si rivolgono al pubblico con le proprie personalità - della necessità di distruggere ogni forma di
autorità.
Tutto ciò sarebbe penosamente
familiare non fosse per il fatto che
Terayama ha messo in relazione questi antichi eretici della tradizione
giapponese agli eretici moderni di tutto il mondo, forse ai problemi della sua
stessa compagnia a Tôkyô, nell'allestire contemporaneamente suoni, luci e personaggi
contro il background di una narrativa giapponese formale. Varrebbe senz'altro
la pena di vedere l'impatto di questa compagnia alla nostra World Theatre
Season, invece di un'altra ben intenzionata ma prevedibile settimana di quelle
tecniche Nô e Kabuki - che sarà pure interessante, ma
difficilmente risulterà
un teatro rilevante (P. Ansorge
in, "Plays and Players", London, 1971 November.)
[33]F.
Quadri, "Il teatro degli anni '70 - Invenzione di un Teatro Diverso",
Einaudi, 1984.
[34]
"In 'Lettera di un Cieco', Terayama
Shûji, continua nelle sue
sperimentazioni per liberarsi dello spazio scenico classico. [...] Lo scopo
dell'opera era quello di mostrare che può
esserci luce anche nell'oscurità
- in questo caso nella cecità.
Il sentimento della piéce
viene espresso da un attore del Tenjô
Sajiki quando dice ad un certo punto: 'Non guardare con i tuoi occhi, guarda
con tutto te stesso.'
I fili della 'storia', più simile
a poesia visuale, si sviluppano intorno al fragile tema di una bambina cieca
abbandonata dalla madre; in seguito, una volta divenuta adulta, si confronta
con lei dopo essere stata allevata da degli amma, ovverosia massaggiatori
ciechi." (Patricia Marton in, "TDR", n° 65, New York, 1975.)
[35]
"Immagini fosforescenti, sfavillanti
come gioielli, emettevano bagliori nella stanza oscurata (che rappresenta un
labirinto) intervallate da periodici black-out. Gli spettatori, pressati spalla
a spalla, tra i vari livelli visivi e la sovrastante area d'azione, erano
costretti ad un continuato stato di allarme da una batteria di vignette. [...]
Ad un certo punto un'attrice venne scaraventata giù
dalla hanamichi, fratturando il naso ad uno spettatore con l'impatto della
testa. [...] Cinque amma vestiti di bianco rappresentanti il cieco, apparendo
inizialmente a un lato della piattaforma in una musica simile ad una litania
funebre, servivano come motivo per tutto lo spettacolo, brancolando per
l'auditorio, spesso gridando e agitando candele e cerini negli occhi del
pubblico." (Patricia Marton in, "TDR", n° 65, New York, 1975.)
[36]"Durante questi periodi, Terayama e i
suoi tecnici di palco (appostati dietro uno schermo situato presso l'entrata)
si scambiavano animatamente istruzioni - "infrangendo i legami tra realtà e finzione". [...] Il cast ed
i tecnici, per la stessa ragione, non si limitavano a stare sull'area scenica o
sul retroscena, ma vagavano intorno, proseguendo la politica di Terayama di
molestare il pubblico tramite il 'confronto casuale'. Ad un certo punto
un'assistente si è
seduta sulla sottoscritta e non voleva più
muoversi; dopo ripetuti sforzi, verbali e fisici, si è
finalmente decisa a scostarsi." (Patricia Marton in, "TDR",
n° 65, New York, 1975.)
[37]
"Dopo l'iniziale entrata degli amma,
un uomo alto, con un cappello a cilindro e una giacca a code, passeggiava
lentamente lungo la hanamichi, che si estendeva per tutta la lunghezza
dell'auditorio. Alla sua estremità
più distante una donna nuda appariva e
spariva subliminalmente da una botola, mentre un uomo pedalava torpidamente su
una rampa sovrastante. Alla sinistra della hanamichi, su di una bassa piattaforma, era illuminata dall'interno una
tomba trasparente contenente delle figure immobili dai volti imbiancati simili
a bambole rotte; gli amma la smantellavano. Una ragazza dal corpo dipinto di
blu si rannicchiava dentro un luccicante baule rosso su di una piattaforma più piccola lì
vicino, mentre verso il palcoscenico due scolarette in uniforme giocavano alla
'culla del gatto' con un pezzo di
elastico. Poi una ragazza in kimono rosa (la bambina cieca divenuta adulta)
incedeva sonnolenta attraverso una struttura di mattoni argentati , con una
musica incantevole, stando di fronte a sua madre, vestita in un kimono color
porpora che stava al centro della hanamichi. (Qui la madre adirata avviluppava
la sua bambina con una ragnatela di stelle filanti simile a quella lanciata dal
ragno malvagio nei drammi ô
e kabuki.) Subito dopo la ragazza si dibatteva in una palpitante luce color
lavanda. improvvisamente appariva una visione apocalittica di creature
sovrannaturali immerse in una luce di riflettori rossa e blu. Nel finale
onirico attori e troupe si raccoglievano insieme su di una piattaforma centrale
circondata da nuvole di fumo bianco. Un sottofondo musicale che combinava suoni
elettronici, vecchi strumenti e un coro lamentoso, si alzava e si abbassava
durante tutta la performance contribuendo a creare l'atmosfera strana e
desolata." (Patricia
Marton in, "TDR", n° 65, New York, 1975.)
[38]"Più
riuscita come esperienza artaudiana la 'Nave dei Folli' di Terayama, che
commise ancora una volta molte delle sue crudeltà
mediante l'amplificazione sonora, questa volta di rock'n'roll giapponese, ma le
azioni strane e simboliche, a livello personale, ebbero un effetto ipnotico, e
fu quella la produzione che attirò
la gente più e più volte per assistere ai suoi
trucchi."
[39]"Come nei suoi film, egli si interessa
di temi di liberazione personale violenta, ma presenta personaggi che sono
bambole o che vengono manipolati da burattinai incappucciati. [...] Quando
assistiamo a rivoluzioni personali, queste non assicurano la pace: quando un
uomo che è continuamente preda
del sonno assassina il suo io dormiente egli viene derubato del sonno."
[40]"Terayama presenta confusioni personali
mascherate da convincimenti, ma la teatralità
preponderante della sua produzione, dà
alle sue opere una vivida vitalità,
e il dubbio contenuto intellettuale diviene irrilevante nel caos degli avvenimenti.
Anche se derivato, egli possiede un grande talento come direttore. Le sue
capacità includono una meravigliosa
manipolazione dello spazio e una sprezzante manipolazione del pubblico. Ma si
può separarsi dalle fiamme, dal
chiasso e dalla imagery violenta della sua opera sentendo, in qualche modo, di
avere assistito ad un incubo e con i ricordi che non scompaiono."
[41]Kitagawa
Takanobu, "Shokugyô Terayama Shûji
- Kyokô ni Ikita Tensai
no Densetsu", Nihon Bungeisha.
[42]G.
Manzella, "Istruzioni alla Servitù - Giochi violenti tra notte e
nebbia del Giappone", il Manifesto, 15-7-1979.
[43]"Ciò
che mi preme descrivere in questa pièce
è l'attuale situazione del mondo,
denotata dall' 'assenza del padrone'. La nostra rivolta non è rivolta contro il padrone assente.
"Il mio nemico sono io stesso".
"Il tuo nemico sei tu stesso." Chiunque può essere il padrone per un quarto
d'ora. Ma, quando i servi tentano di uccidere il loro padrone assente, il loro
veleno e il loro odio creano l'immagine dell'inferno." (M. Myers, "Terayama's Directions to Servants", in TDR
n° 89, New York, marzo 1981.)
[44]Terayama Shûji Terayama Shûji no Gikyoku, vol. 9, Shichôsha, 1984.
[45]" 'Directions to servants' è un'opera di immagini create
mediante l'uso di elementi teatrali esagerati: costumi, trucco, strutture (che
includono macchine intese come estensioni dell'uomo fisico), luci e, a volte,
dialogo nonsense. [...] Gli assalti auditivi attraverso il linguaggio, la
musica e suoni - umani ed elettronici
- sono
accentuati da immagini visuali. Domina il cerchio di luce. Terayama
definisce un singolo cerchio di luce come una metafora dell'ordine; ogni qual
volta sussista più
di un circolo, ne segue la confusione e ne risulta il caos. [...] L'intero
spazio del teatro rappresenta la casa. Sedici attori, ognuno dei quali
rappresenta una categoria specifica di servitore, costituiscono i personaggi
principali, , essi includono un uomo addormentato, un cane umano e una pazza
che crede di essere lei la Padrona.
Nell'introduzione alle note del programma viene suggerita la possibilità che il vero Padrone possa essere
tra i servi, fingendo di essere uno di loro. Molte strutture consistono in
macchine dal design complesso, finemente lavorate, che servono simultaneamente
da estensioni o da incorporazioni del corpo fisico e da strumenti di tortura.
[...] La macchina è
una metafora della condizione subordinata dell'uomo. [...] La sola struttura
presente per tutta la durata della performance è
la scarpa del Padrone, consistente in una rappresentazione rosso oro a tre
strati di una bocca e lingua, cioè
il facitore di parole. Chiunque venga in possesso di questa scarpa diviene
temporaneamente il Padrone della casa. [...] In Directions to Servants appaiono
elementi apertamente erotici, sadomasochistici e scatologici. Le immagini della
rappresentazione, di per se stessa hanno scarso significato. L'intenzione non è né
l'interpretazione di un'idea, né
il trasferimento di informazioni. Piuttosto gli elementi teatrali divengono
esplorazioni del misterioso e dell'incongruo." (M. Myers, Terayama's
Directions to Servants, in TDR n° 89, New York, marzo 1981.)