Per gli spettatori del teatro moderno gli attori
non sono altro che dei sostituti (stand
for) degli individui. L'attore prende il posto dello spettatore, incarna per
esso un'altra realtà e sperimenta la morte al suo posto. In questo senso, l'attore rappresenta per il
pubblico l'esistenza simpatica[1], e si trasforma in somiglianza che genera
un'altra somiglianza oppure un risultato che somiglia all'origine.
Questo spiega il perché la recitazione si basi sugli stessi fondamenti della
magia, la quale sta a capo di tutte le regole della somiglianza.
Intendo dire che sia la recitazione, sia la magia hanno per nucleo il principio
di "simpatia"[2], la quale si origina proprio a causa
dell'uso dell'imitazione.
Per esempio, un ambizioso uccide un superiore pensando di poter prendere così
in mano il controllo del potere. "Se
l'atto finisse con il suo compimento, sarebbe meglio che fosse fatto presto. Se
l'assassinio potesse intrappolare le conseguenze, e afferrare con la sua
esecuzione il successo, così che questo colpo potesse essere il principio e la
fine di tutto - qui, solo qui, in questo banco in secca del tempo - allora, se
con questo tutto finisse, la vita futura a chi importerebbe più? Però in casi
come questi, la giustizia viene anche nel nostro mondo, per chiunque.
Istighiamo azioni malvagie e sanguinose e causa ed effetto, rovesciandosi,
travolgono l'autore.
La giustizia, dalla mano imparziale,
spinge la coppa avvelenata alle labbra del servo che l'ha riempita."
(Macbeth atto I, scena VII)
Il re che viene assassinato in questa tragedia, assume nell'immaginazione degli
spettatori l'aspetto di una statua. L'omicidio è solo un gesto, e sul palco non
scorre certo sangue vero, ma, non di meno, il pubblico ha modo di sperimentare
a sufficienza la brutalità della storia. Potremmo dire che un ruolo simile costituisca
una prova della qualità magica della recitazione. Quanto detto, per esempio, calza perfettamente al seguente
passo tratto dalla definizione di magia di Frazer[3] "Si crede che l'applicazione generale della
magia, apporti danno al nemico (oppure lo uccida), nel caso in cui se ne
danneggi (o distrugga) il feticcio; per
ogni sofferenza inflitta all'immagine, immediatamente, in pari misura, soffrirà
la persona che essa ritrae; mentre, se l'effigie verrà distrutta, in quel
momento il suo possessore morirà.
Queste pratiche si sono tramandate in molte epoche e sono praticate da numerose
popolazioni."
Gli indiani d'America credono che se si dipinge sulla sabbia, sulla cenere o
sull'argilla, l'immagine di una persona, e si pone che quell'immagine sia il
suo corpo, infilzandola con un bastone appuntito o usando altri metodi per
danneggiarla, si apporteranno gli stessi danni equivalenti al corpo dell'uomo
che quest'immagine rappresenta.
La sostituzione tra immagine e persona oggetto della maledizione si adatta
perfettamente, senza bisogno di modifiche, alla sostituzione che oggi compiono
gli attori.
Frazer scrive: "Il possedere
un'immagine somigliante al soggetto interessato, usata di solito con scopo
malvagio, scaccia da questo mondo le persone non desiderabili, ma, sia pur
raramente, esistono casi in cui questa magia venga utilizzata per scopi
positivi volti ad accompagnare le persone in questo mondo".
"L'immagine" costituisce un simbolo, non un'esistenza.
Nel caso della bambola di cera bruciata sul fuoco per sette giorni e sette
notti, gli spettatori fanno coro: "Quella che noi bruciamo non è cera, è
il fegato, il cuore, la milza di Macbeth."
La "simpatia"[4] e il contagio
sostengono la teoria della
recitazione facente parte del teatro d'azione che fino all'epoca moderna
"usava l'attore come
surrogato".
È necessario inoltre andare ad indagare
cosa abbia rappresentato l'attore per l'autore.
Per l'autore l'attore era un tramite, un portavoce, un simbolo. Gli attori si
curano di trasmettere il più fedelmente possibile il pensiero dell'autore,
perciò quando Macbeth dice: "Domani
viene, domani passa, poi di giorno in giorno, a piccoli passi, il piano del
tempo scivola e cadiamo, fino all'ultima sillaba del tempo previsto. E tutti i
nostri ieri hanno illuminato a degli stolti la via che porta alla morte nella
polvere.
Spegniti. Spegniti, breve candela! La vita non è che un'ombra in cammino. Un
povero attore, che si pavoneggia e si agita al momento della sua apparizione
sulla scena, e poi si spegne. Come le chiacchiere di un idiota, voci confuse e
piene di furore che non significano nulla." (Macbeth atto V, scena V)
gli spettatori pur illudendosi per un
istante che sia la voce dell'attore a dire: "...Si
pavoneggia e si agita al momento della sua apparizione sulla scena, e poi si
spegne..." capiscono in seguito che in realtà si tratta della voce
dell'autore che parla tramite l'attore. Il pubblico, accettando questa
sovrapposizione come "teatro", decide di passare una serata
divertente andando ad assistere ad uno spettacolo.
La fiction del castello scozzese del Macbeth, in realtà rappresenta l'allegoria
di un'enorme repressione.
I personaggi rinunciano a tutte le parole proprie dei principi della realtà, e
divenuti muti, assumono e si spartiscono le parole di Shakespeare. In questo
caso gli attori, oltre a duplicare l'immagine del mondo perfetto del copione si muovono come se fossero stati programmati
e parlano una lingua che è stata
programmata (il copione); essi non hanno altre vie per sopravvivere.
Macbeth dice: "Si agita e si
pavoneggia sulla scena per il momento della sua apparizione" ma in
realtà viene fatto "agitare
e pavoneggiare" perché la voce naturale dell'attore che impersona
Macbeth non si esprime neanche per un istante.
Finora l'attore non era stato altro che una bambola magica di cera, schiava del
copione, che voleva mostrare solo di saper parlare.
Manfred Fubricht, critico e traduttore delle
mie opere in tedesco, definisce la condizione dell'attore come "prostituzione del sentimento".
Gli attori, non avendo la possibilità di usare parole proprie, devono cercare
di parlare il più possibile con le parole dell'autore, e hanno la tendenza ad
eccedere nel sentimento, ma spesso esprimono il sentimento in una quantità tale
da non poterne contenere più nel recipiente delle parole e per poter continuare
a riempirlo arrivano a farlo straripare
e finiscono per inzuppare tutto ciò che vi è intorno.
Gli attori sperano di essere amati da milioni di persone e per strappare
l'applauso, sono pronti a svendere un
ipocrita sorriso lacrimoso. Perciò potremmo dire che, oltre a praticare una prostituzione del sentimento, pratichino
allo stesso tempo una "prostituzione
dell'applauso".
Gli attori per ottenere soddisfazione all'interno di una realtà
fantastica, scelgono di sacrificare i
principi della realtà. Inoltre hanno,
ad esempio, la tendenza a dimenticare che, pur essendo scampati alla
politicizzazione, essi sono rimasti prigionieri di un altro giogo.
Sulla scena c'è una parete. I personaggi agiscono al suo interno, ma essi non
sono soltanto personaggi, sono anche gli attori che li impersonano. In questa
parete vi è una porta. Ma la distanza di appena venti centimetri tra il pomello
della porta e la mano dell'attore, per assurdo, non è riducibile in alcun modo.
L'attore, secondo copione, grida: "Fammi uscire fuori di qui!" Ma
fino all'ultima pagina non c'è scritto che lui debba uscire, aprendo la porta.
Non ha possibilità di scampo. Tutto è prefissato dalla trama, composta
dall'autore sulla scrivania del suo studio. Forse in questo momento l'autore
starà facendo uno sporco gioco con la giovane figlia, oppure sarà in un
ristorante qualsiasi a sgusciare granchi sott'aceto. Il fuori e il dentro, del
"muro" del personaggio non possono essere modificati da nessuna data
politica, né dalla reazione del pubblico. Quando il personaggio grida dalla
parte interna della parete "fatemi uscire!", è perfettamente consapevole
che non potrà farlo né stasera, né domani, né quella dopo, fino all'ultima
rappresentazione. L'attore è il traditore dell'ideologia romanesque perché pur sapendo per certo cosa avverrà domani,
continua spudoratamente a vivere fino a quel giorno. Certo, se l'autore è
vivente, potrà tirarlo fuori con una semplice penna. La sua fuga da dietro la
parete è realizzabile inserendo una semplice didascalia: 'L'uomo esce sfondando la porta a calci.'
La forza dell'autore è assoluta se il cast riproduce i suoi scritti
fedelmente. Finora la struttura del "teatro" è stata fondata
basandosi su questo tipo di cast e su una decina di persone interessate che
correvano in ogni direzione per l'immaginazione di un re chiuso all'interno del suo studio. Gli attori si dividevano le
parole come se a dei vassalli si distribuissero i gusci, e vivevano come
schiavi l'immaginazione di un altro uomo perché "un ombra che
cammina" non sta a rappresentare la vita di Macbeth ma la vita dell'attore
stesso.
Da molto tempo nutro dei dubbi circa la definizione di un simile
attore-sostituto e quell'attore che diventa una bambola per il principio di
somiglianza di sentimento.
Prima di tutto il fatto che ci si ponga domande come queste: "Cos'è
l'attore per gli spettatori?", "Cosa per l'autore?" mi pare già
un cattivo segnale, perché la domanda dovrebbe essere posta in questi termini:
"Che cos'è l'attore per gli attori stessi?"
Durante la festa di Komaba[5] all'università di Tokyo, ho tenuto sull'attore
questa conferenza:
IO:
"Vorrei porre
l'attenzione sul fatto che viene data all'attore una funzione simile a quella
della moneta; questo deriva soprattutto dal problema di scambio e di divisione
del lavoro.
La divisione dei compiti nella società ha ostacolato la comprensione unitaria
del mondo. A questo riguardo vi racconterò, come esempio, del modo in cui
abbiamo deciso di farci fare i vestiti che indossiamo e le scarpe che calziamo
dal sarto e dal calzolaio. La capacità di scambio si è andata ampliando
gradualmente; si è detto che questo fatto, oltre a dare vigore allo sviluppo di
una società industriale, arrivi fino a rendere possibile uno scambio reciproco
umano.
Adam Smith dice che questa suddivisione dei compiti non è casuale ma trova una
base nella capacità peculiare degli esseri umani di usare il linguaggio e la
ragione.
Smith arriva a concludere che il motivo dell'introduzione della suddivisione
dei compiti, più che essere la 'dignità umana', sia l'"egoismo".
Non voglio dire che dignità umana ed egoismo siano in contrapposizione, ma è
importante che si faccia attenzione al fatto che la varietà del genio umano è
il risultato e non l'origine della suddivisione dei compiti. Dal momento che né
cani, né scimmie sono capaci di organizzare degli scambi, non essendo in grado
di combinare elementi differenti, essi non sanno ottenere profitto da una
situazione di collaborazione socializzata. Nel caso degli esseri umani, invece,
scambi e suddivisione dei compiti (visti come
espressione della differenziazione di un'unica forza essenziale e di
un'unica attività) si sono ingranditi rapidamente. Così è apparsa la moneta,
come segno di mediazione. La definizione di moneta si adatta ad un certo tipo
di attore.
Da "Manuale di filosofia ed
economia" di Marx ho estratto il brano sulle monete. Riguarda la
sezione in cui si legge:
"Le monete possono comprare qualunque cosa, e possiedono la qualità di
trasformarsi in qualunque oggetto e per questo il loro significato è enorme.
L'universalità di questa caratteristica le rende onnipotenti. Il denaro
costituisce il legame tra il desiderio e il suo oggetto, tra vita umana e mezzi per vivere. Tuttavia a fare da mediatore tra ogni individuo e la
sua stessa vita, vi è l'esistenza di altre persone, o, per meglio dire, 'gli
altri visti secondo la propria ottica'. "
ora, se proviamo a sostituire la parola
'denaro' alle sei lettere della parola 'attore', il senso di questa frase non cambia di molto:
"L'attore può cambiare qualunque
cosa e ha la capacità di trasformarsi in qualsiasi soggetto, per questo il suo
significato è eccelso. L'universalità di questa sua capacità lo rende
onnipotente. Egli lega desiderio e oggetto, vita umana e mezzi di
sostentamento. E' questa secondo me la natura di un ruolo. Ma mediando tra ogni
individuo e la sua stessa vita, egli media l'esistenza degli altri confronto
all'individuo stesso."
IO:
Nel Faust di Goethe,
Mefisto faceva sorridere il pubblico dicendo: "E' naturale. Di sicuro,
testa, gambe, mani, sedere, sono tuoi, ma questo non significa che non siano
tue anche le cose di cui sei entrato in possesso di recente.". Tuttavia il
fatto che si possa acquistare con il denaro un mestiere o il carattere, vale
soltanto all'interno dei principi della realtà, ma una persona può anche raggiungere
il rango di re oppure avere la propria figlia. Cose possibili per l'attore
quando recita nel ruolo di un re o nel ruolo del fidanzato accanto alla figlia.
La capacità di trasformazione non è una
prerogativa unica delle monete. Tra gli attori, per il fatto che viene loro
assegnato un ruolo, una donna insignificante può trasformarsi in una Venere e
uno zoppo può avere ventiquattro gambe. Macbeth ci rivela che è stato
Shakespeare a definire il denaro nel modo più appropriato, ma è una cosa
naturale. Nella mente di Shakespeare c'è stato uno scambio senza sosta non solo
tra "cosa e cosa" ma anche tra "persona e persona". Due tra
le qualità della moneta sottolineate da Shakespeare sono:
1. E' una manifesta divinità, in grado di cambiare la natura di oggetti ed esseri
viventi nel loro contrario, mischia alla rinfusa tutte le cose e le sconvolge,
il che equivale a cercare di rendere amici due compagni incompatibili.
2. Nei confronti delle persone essa costituisce un bordello legalizzato, che si
trova ovunque tra la gente di vari paesi.
Tutto questo si collega profondamente con la teoria dell'attore di Shakespeare.
E' comune l'idea che si diventi attore per trasformarsi, per diventare una
persona diversa da sé, per visitare posti nuovi, ma alla base di un aspirante
attore c'è un sovvertimento generale della personalità, in grado di mutare un
aspirante banale, in un carattere esattamente opposto. Tuttavia la eventualità che le persone siano
sostituibili come merce qualunque è una questione lasciata in sospeso da molto tempo.
La fantasia che libera il corpo dell'attore da qualunque limite, nasce proprio
nel momento in cui la trasformazione del
corpo dell'attore è limitata dalle sue parti differenziate. È dominante il pregiudizio secondo il quale la
distanza tra desiderio e il suo oggetto possa essere ridotta privilegiando il
corpo.
IO: Però all'interno di un singolo
attore non c'è unicamente la sua essenza "sociale", la sua qualità di
singolo indipendente, ma anche il caos della sua vita interiore.
Egli, essendo distinto dagli altri uomini, assume un ruolo di mediatore dello
scambio di valore. E questo non è compito facile. Un errore generalmente
commesso dalle compagnie consiste nell'assegnazione dei ruoli: la sostituzione
deruba l'attore del proprio carattere e lo rende niente più che un sostituto,
un riproduttore. Ma l'attore non diventa certo re per il fatto di indossare una
corona. Se è adatto al ruolo lo scambio di valore sarà possibile e quindi
l'attore potrebbe rimanere se stesso. Resta insoluto il problema se si possa
essere un re essendo contemporaneamente se stesso oppure se non si abbia il
diritto di scambiare il valore.
Comincio a considerare l'attore del
passato, inteso solo come un 'condivisore' del sentimento, alla stregua degli
attrezzi usati per le pratiche di magia nera (sagome umane e bamboline di
paglia); mentre ora, secondo la "mia arte dell'attore", egli ha a
disposizione la via che porta ad un rapporto diretto con i partecipanti allo
spettacolo. In questo modo egli assume il ruolo di stregone[6].
Quantomeno l'attore non è più un
sostituto che ripete un "copione dato" e mette in mostra
un'"azione data"; egli
necessita al contrario di una situazione magica in grado di suscitare e di un
insieme di capacità per creare nell'ambito dell'immaginazione.
Ora gli attori non 'si fanno vedere', né tantomeno 'mostrano', ma 'suscitano' e
'trascinano'.
Costruire relazioni prive di via di scampo è il primo passo verso l'arte dell'attore.
In seguito, un workshop del Tenjô Sajiki
ha fatto diventare questo postulato il soggetto principale delle nostre
ricerche e da quel momento in poi
abbiamo deciso di mantenerlo.
Per prima cosa scriverò sull'idea di
"stregone".
1. La magia si riscontra in varie società; essa, pur contenendo il sistema
della realtà quotidiana, è precisamente distinta dalle regole riguardanti i
fatti reali. Intendo dire che la magia, pur essendo finzione, non per questo
viene respinta al di fuori dei principi della realtà quotidiana.
2. L'azione magica, simbolizza varie idee e credenze religiose. Inoltre, se
guardiamo questa azione dal punto di vista della realtà quotidiana, noteremo
che essa è una cerimonia il più delle volte a carattere misterioso ed
esoterico.
3. La prerogativa originale della magia è l'organizzazione della casualità con
la forza del sentimento e l'immaginazione.
4. Accade che le varie azioni, che dalla cerimonia religiosa, dalla tecnica e
dall'azione legale, arrivano fino all'attività politica, vengano confuse con
l'azione magica. Ma in realtà esse sono cose del tutto distinte anche se si
confondono per la somiglianza della parte che le differenzia.
5. L'antinomia della magia è politica.
La magia ripetuta due volte, diventa espressione, ma i fatti politici ripetuti
due volte diventano commedia.
6. Come afferma Marcel Mauss si crede che gli stregoni non abbiano l'ombra. I
loro occhi hanno la pupilla dilatata fino a contenere tutta l'iride e il
riflesso che vi si posa rimane imprigionato.
7. Anche lo stregone, oltre gli attori, si fa notare e temere per le speciali
qualità fisiche, come l'essere ventriloquo o prestigiatore, o acrobata, e per
abilità straordinarie; egli diventa il bersaglio del disgusto del pubblico.
Gli stregoni hanno bisogno di 'leggenda'. Per questo gli stregoni australiani
hanno nella lingua un buco aperto dallo spirito e sul ventre una cicatrice di
un'incisione. Se si chiede loro di che cosa si tratti, risponderanno che sono
state loro cambiate le viscere. Si dice che il buco nella lingua degli stregoni
delle isole Banks sia stato fatto da un serpente blu scuro. Essi oltre a essere 'invasati' sono degli 'esseri
che hanno il potere di possedere'.
Si pensa che l'espressione simbolica di questi stregoni - pur cambiando essi forma nella società moderna -
sarebbe per gli attori, chi più chi meno,
un elemento indispensabile.
Un determinato tipo di attore, il giorno della prima, recita imitando le sue
esperienze personali, successivamente, dal secondo giorno in poi, interpreta
l'imitazione della sua esecuzione del giorno della prima; questa riproduzione
della gestualità non può raggiungere la verità spirituale.
Il bravissimo attore Hijikata Sen della Garumera
Shôkai una volta ha detto: "Io ho dentro di me la mia sorella
maggiore.", si è raccolto i
capelli dietro la nuca, come una donna
anziana, e ha iniziato a parlare con la voce sommessa di una vecchia. Una
simile espressione è equivalente alla capacità dello stregone non solo di
percepire al suo interno l'esistenza di
caratteri altro da sé, ma di arrivare fino al punto da estinguere il proprio
carattere; inoltre la stessa duplicazione della psicologia, della fisiologia e
del carattere sono forse comunemente attribuite alla possessione demoniaca?
Comunque sia, l'attore avendo uno spirito particolare, deve essere l'uomo capace di provocare la possessione
demoniaca, per far questo
necessita, non solo dell'esercizio della carne, ma anche di generare una
peculiare forza d'influenza.
IO:
"La pratica
dell'attore non è qualcosa che si possa insegnare a scuola. A scuola si possono
insegnare le tecniche, ma nell'ambito della recitazione le tecniche occupano
un'importanza molto piccola. Gli elementi che vengono riportati alla luce con
l'allenamento dell'attore, come una citazione dal sutra Patanjali, portano
gradualmente ad uno stato di trance con la nascita, piante ed alberi, formule
magiche, l'astinenza e l'intensità.
Ad esempio, si racconta che in origine della tribù Maringu, il futuro stregone (Murup - l'attore) abbia aperto
la tomba di una vecchia, e dopo essersi coricato accanto ad essa, le abbia
tagliato la pelle del ventre. Poi, mentre era addormentato, la pelle lo aveva
trasportato nei cieli, dove si era
imbattuto negli spiriti e negli dei. Essi
gli insegnarono i riti e le formule magiche. Superata questa cerimonia
di tabù, penitenza e attriti, oltre ad essere stato ammesso ad un'esistenza
particolare, egli assunse la connotazione di uomo passato dalla società della
realtà quotidiana, di cui aveva fatto parte fino a quel momento, ad un'altra
società diversa, distinta da
caratteristiche particolari.
Mi capita di sognare di tenere in mano
un'accetta grondante di sangue, è molto probabile che nel sogno abbia ucciso
qualcuno, ma non so chi sia e per quanto mi sforzi di ricordare inciampo sempre
in qualcosa. Molti ritengono impossibile essere introdotti nel sogno di
un'altra persona. Ma sia gli attori che gli stregoni sono costretti a
rinunciare al sogno 'privato'. Per questo il teatro, cioè il sogno di proprietà comune, organizza l'incontro progettando di fantasticherie di gruppo.
L'attore, per dare un senso alla propria entrata in scena, deve inventare un
linguaggio proprio, e, affinché la situazione magica si possa esprimere, egli
deve essere dotato di una forza tale che gli permetterebbe di saltare anche se
non avesse le gambe.
Antonin Artaud dice: "Si pensa al testo come qualcosa di santo, ma
la cosa più importante è rompere la subordinazione al testo teatrale e
riscoprire l'idea di un linguaggio unico che si trovi a metà strada tra
pensiero e azione." Ma, secondo me, questo non è sufficiente.
L'attore, oltre a rifiutare, ciò che viene fornito del tutto a priori, per di
più, deve avere la forza di scoprire un linguaggio unico, e deve riuscire
superare tutti "i dialoghi", "le
scene", "l'immersione nella
natura del proprio ruolo dovuta al sistema Stanislavskij", "l'idea della duplicazione implicita nella
domanda di Brecht: - il teatro può riprodurre in mondo? -", "il confine tra realtà e finzione",
dati a priori.
Questo gruppo di "apriorismi" costituisce una barricata. Solo la
tigre (l'attore) che può superarla può avere la capacità di sorreggere il mio
teatro.
Grotowski ha spiegato la separazione definitiva tra attore e testo come segue:
INTERVISTATORE: "Ha detto che
non si può recitare seguendo un testo, perché l'attore non è né Giulietta, né
tantomeno l'autore della tragedia. Che cosa significa?"
GROTOWSKI: "Parliamo e ci
esprimiamo, e, mentre calcoliamo i pensieri, si può dire che in cattivo senso
possiamo "recitarli". Questo è il fasto[7] umano.
Se un attore dicesse: "ora devo
decidere di scoprire le mie associazioni inconsce e la mia esperienza
personale, e devo trovare un partner fidato", egli sarebbe sicuramente molto attivo, ma se, al
contrario, avesse già riassunto tutto in una prosa elegante, somiglierebbe
soltanto un uomo che si sta confessando in questo momento e la confessione
sarebbe inutile. Se invece egli, abbandonata questa situazione confortante e
sicura, si ritirasse nel suo io, sinceramente, l'armonia ricondurrebbe il corpo
facendo ricorso ad esperienza individuali, e mostrandole all'esterno,
svelerebbe una verità molto difficile. Questa passività interiore rappresenta
per l'attore un'occasione da acciuffare."
E difficile scoprire a partire da questi limiti espressi da Grotowski le sue
reali intenzioni, ma penso chela questione sia l'incontro tra attore e
testo. L'attore non interpreta il
testo; gli è richiesta l'espressione impulsiva che nasce dai punti di contatto
tra attore e testo. Grotowski da molta importanza alla forza di associazione
dell'attore. Ma, il limite che si crea dall'atteggiamento di Grotowski è
costituito dal fatto che per gli attori non è possibile andare oltre la sua
suscettibilità, né oltrepassare la sua
immaginazione; e così, senza accorgersene, il calcolo finisce per respingere la
casualità e la violenza.
Secondo me
l'esistenza dell'attore deve adempiere il compito di "trasmettere il
contatto". Frazer definisce questo contatto alla stregua di della magia: "Anche dopo che il contatto fisico è cessato, la distanza accresce ancor
più l'azione reciproca."
La legge del contagio è, come tale, la legge di trasmissione insita
nell'attore. Io essendo infettato dall'attore provo ad escogitare un metodo che
usi la metonimia in una "situazione teatrale" che è stata tramutata
in peste.
Il mattino del 16
aprile, il dottor Bernard Rue, apprestandosi ad uscire dal suo ambulatorio
incappò, nel bel mezzo della scalinata in un topo morto. In un istante, senza
perdere la calma, lo spostò e proseguì
per le scale. Però, una volta giunto in strada, cominciò a pensare che quel
topo si trovava in un luogo strano e, tornato indietro, avvisò il custode.
Si disse: "A pensarci bene, in questo palazzo di topi non ce ne sono.
Probabilmente questo lo devono aver portato da fuori. Sarà stata una
bravata."
Il fatto di essere "introdotto
dall'esterno" costituisce il primo contatto con il teatro.
Proprio il topo morto inoltre, dà il
via ad un contatto verso un'ulteriore realtà, lo stato del mondo della finzione
(nel romanzo, questo elemento esprime la "morte" della realtà
quotidiana). Il topo morto è, a
seconda delle occasioni, un simbolo linguistico, una metafora del recitare, di
un'azione, di un comportamento. Inoltre, il topo
morto che viene apportato dall'esterno in
"A Prima Vista, una Comune
Cittadina", viene utilizzato dal ruolo dell'attore che tira le fila
della finzione.
La tecnica dell'attore dipende dalla sua capacità di generare delle relazioni e
dalla sua forza di adesione grazie alla quale egli può ottenere il contatto.
Sia la capacità di far riapparire i fatti (ossia la realtà), sia la tecnica di
generare una riproduzione delle azioni, sia la capacità interpretativa che
mimetizza la propria pazzia, non vanno oltre un'esposizione comportamentale sul
palco di quel genere di uomini denominati 'attori'. (Ciò, naturalmente non
significa che noi siamo all'oscuro del fatto di costituire uno "zoo"
dei divertimenti Come si vanno a vedere le scimmie e le tigri, si possono anche
andare a vedere i sentimenti di gioia e rabbia di alcuni mammiferi appartenenti
al genere degli attori. Introdotti nella gabbia di Shakespeare e di Strindberg,
si potrà sopportare una ragionevole noia. Ma tutto ciò rimane un avvenimento
all'interno della gabbia, assolutamente estromesso dai principi della realtà
quotidiana presenti all'esterno di esso.)
La drammaturgia
(fiction) consiste nel mettere in relazione spettatori e attori. Nel contesto
dell'incontro prodotto dal teatro, essa elimina l'idea di separazione classista
tra attore e spettatore, producendo una relazione di collaborazione reciproca,
e a partire da questa organizza la casualità, sulle basi di una consapevolezza
di gruppo. L'eroe di Sartre dice: "Garçon, l'inferno riguarda gli
altri." Anche la realtà che cerchiamo di separare da noi, definendo le
persone come "gli altri", non potrà essere slegata da noi. Un piccolo
articolo su un suicidio per annegamento stampato in un cantuccio del giornale;
gli annunci di persone scomparse, la guerra scoppiata al confine meridionale;
il discorso per la riconquista della madrepatria tenuto dai dirottatori; le
capricciose asserzioni sul ritiro di Brigitte Bardot; i segreti militari
americani riguardanti il bombardamento della Cambogia; il crollo del prezzo di
mercato della sterlina inglese[8], nessun fatto può essere considerato come
"un problema altrui". Allo stesso modo è impossibile accogliere
qualsiasi cosa come un problema personale. In questo caso lo spazio tra gli
altri e se stessi, nell'accettare la situazione, la classifica. Esso diventa le
scienze politiche delle masse. Spesso ci separiamo da noi stessi per il fatto
di costituire, proprio noi, il "problema altrui". Successivamente,
mantenendo questa distanza, consolidiamo la cosiddetta sfera individuale. Prendiamo
la vita di una famiglia che ha totemizzato la lavatrice come quella di "A Prima Vista una Comune Cittadina".
In questo brano, gradualmente, il concetto secondo il quale "l'inferno riguarda gli altri"
inizia a mutare riguardo alla verità.
Il disinteresse respinge il contatto, ignora l'incontro casuale, la calma
relativa che è stata acquisita, la separazione definitiva tra realtà e bugia.
Sullo schermo televisivo viene perpetrato
un omicidio, che è garantito per falso, perché alle famiglie che
assistono alla scena, è stata promessa, a questo prezzo, l'inviolabilità.
In questa realtà quotidiana un giorno qualcuno introduce dall'esterno un topo
morto e questa azione contiene l'inizio
di tutto poiché la finzione, affidata al topo, lega alla forma originaria e
riorganizza la realtà con l'aiuto della forza d'immaginazione, ristabilendo
così la casualità "dell'incontro" - che a questo punto è ormai
inevitabile. Il topo morto, risveglia la città dal sonno nei confronti dei problemi altrui e fa appello al bisogno
di separarsi. Il teatro è caos e, per
questo, gli attori eliminano l'orizzonte tra sé e gli altri, e trasmettono un
contatto scevro da ogni sorta di discriminazione.
Ho detto ai membri della compagnia: "Nel caso in cui tramite il teatro
vengano fatti incontrare coloro che considerano l'inferno un problema che ririguardi
gli altri, l'intrusione di bugia e finzione all'interno della realtà, rende
"l'incontro" fiction e tende a trasformare in spettacolo la fusione
che si crea tra sé e gli altri; in altre parole, significa far incontrare
l'inferno."
Proverò a
spiegare, ricorrendo ad esempi concreti, quale debba essere l'addestramento
dell'attore affinché egli possa, nella sua qualità di mago, trasmettere il
contatto.
Nell'estate del 1969 ho radunato a New York un certo numero di attori americani
per allestire un workshop riguardante
mie opere.
Ôshima Kazuko, la
mia interprete, mi ha telefonato in albergo: "Perché non andiamo ad
assistere al workshop del professor
Schechner?". Ho preso il mio caffè mattutino in un cafè economico di East Bridge, e mi sono diretto al luogo della
dimostrazione, insieme a Higashi Yûtaka
dei Kid Brother[9] di Tôkyô che, in quel periodo, stava
riscuotendo un buon successo a Broadway con Yokogane
Baddo.
Svoltato un vicoletto del quartiere dei magazzini, siamo sbucati in una strada
deserta, c'era un piccolo teatrino in cui il teatro del ridicolo[10] stava rappresentando "Barbablù" di Charles Radoramu[11].
Sei o sette tra i membri
della compagnia avevano già indossato i loro abiti da allenamento e iniziato a
fare una leggera ginnastica. Quando
chiesi alla signorina Ôshima per quale motivo Schechner non ci mostrasse
un workshop mi disse: "Perché
basta che ci sia anche un solo spettatore e questa
cosa diventa teatro.".
Poco dopo il maestro Schechner è entrato in scena sporgendo da un ventre e ha impartito due o tre indicazioni agli
attori, portava dei baffetti alla cinese, come una foca del mar Egeo. A quel
punto gli attori hanno iniziato a dimenarsi e contorcersi sulla piattaforma.
Quattro di essi hanno cominciato a compiere alcune azioni, come emettere le
grida degli uccelli o fare sesso nella posizione dei cani. Era uno spettacolo
singolare. Un attore completamente nudo rotolava come un tronco; un'attrice
come se vomitasse tutta l'impurità contenuta all'interno del suo corpo,
cominciava a rigurgitare le parole che aveva trattenuto fino a quel momento;
Schechner, , a voce sommessa stava tirando fuori, parola per parola, ad
un'attrice che gli stava di fronte, la quale sembrava in una condizione
deprimente, il suo mondo interiore da cui era rimasta chiusa fuori, come un
analista che esamini un paziente che abbia perso la memoria. Questa era
l'utopia di un incubo chiamato workshop,
nel quale, tutti gli attori che vi prendevano parte erano molto distanti dalla
vitalità umana.
Mi ha fatto venire in mente Panorama
Shimazakidan di Edogawa Ranpo[12].
"Questi", ci ha spiegato Schechner, "Sono esercizi che servono
ad eliminare la repressione. Gli attori, eliminando gradualmente gli attributi
della realtà quotidiana, diventano liberi. Dal momento che si tratta di
individui, essi vengono ricondotti al loro corpo
individuale".
Comunque sia questi esercizi non mi sembrano importanti per la "formazione
di un attore"; il problema non è costituito dai mezzi ingannevoli e
ipnotici usati da Schechner per addestrare gli attori, perché i loro
camuffamenti (come ad esempio quello del malato psichico, o cose simili) sono
per metà inconsapevoli, insomma: non fanno altro che "auto illudersi".
Questa mia impressione si è andata chiarendo gradualmente.
Ho provato a riassumere le mie impressioni sul workshop di Schechner:
1. La sua pretesa di eliminare le repressioni sociali non si risolve forse nel
imporre una nuova repressione? (Questa nuova repressione nasce dal separare in
maniera coercitiva l'individuo da tutte le relazioni. Si tratta di una
repressione chiaramente sessuale.)
2. Non potrebbe essere che, per via della caduta in uno stato di allucinazione,
gli attori non è che si liberino ma, più semplicemente, perdano soltanto l'idea
di libertà?
3. Se questa condizione, consistente in una recitazione auto reprimente,
venisse proposta in maniera estemporanea nella vita quotidiana piccolo
borghese, finirebbe per essere catalogata come un oggetto di curiosità di un
museo di personaggi bizzarri e, in un batter d'occhio, diventerebbe semplicemente un oggetto di
spettacolo, una forma di compensazione della società.
4. Nella strategia del mago sono previsti camuffamenti ed imbroglio, ma nel
caso del workshop di Schechner, pur
essendoci il camuffamento, manca l'imbroglio. (O almeno, l'unico ad esercitarsi
nell'imbroglio è solo Schechner e non gli attori). Gli attori né "parlano" con il pubblico, né lo "toccano";
si limitano ad esibirsi come corpi grotteschi. Danno l'idea che il loro unico
scopo sia quello di alzare ed abbassare il prezzo della carne al mercato di New
York.
Ritengo che gli attori di Schechner non sarebbero in grado di apportare qualcosa dall'esterno, come
avveniva nel caso del topo morto di A
Prima Vista una Comune Cittadina. Ciò che possono riuscire a fare, al
massimo, è trasformarsi essi stessi in
topo morto, ma non riuscirebbero mai ad architettare un piano come quello di
"procurare in una notte la morte di cento ottantamila soldati
dell'esercito Assiro[13]"; manca in loro la cognizione
che drammaturgia (fiction) significa "apportare". In ogni caso il
termine attore non definisce un mestiere. Attore
non è qualcosa di fisico. Attore è un
"fatto". Comunque, è il
caso di chiarire che l'introdurre un
topo morto rappresenta un'interpretazione,
mentre l'assumere l'aspetto di un topo morto è soltanto questione di make up.
Un workshop che elimini gli altri (oppure
un workshop che adopera le altre
persone come fonte di repressione) non potrà mai infondere al corpo la tecnica
della trasmissione del contatto.
Nel caso del workshop di Schechner,
non si può enumerare neanche uno dei
principi del teatro che hanno la funzione di contagiare.
Nell'anno in cui
abbiamo organizzato il laboratorio teatrale del Tenjô Sajiki (1966) avevo letto
per la prima volta Antonin Artaud. All'interno di questo libro[14] il capitolo riguardante la peste è stato
quello che ha lasciato nel mio animo un'impressione più profonda.
In questo libro c'è un passo che racconta di come il viceré di Sardegna
Saint-Rémys avesse sognato di contrarre la peste: Saint-Rémys descrive il sogno
in cui il suo piccolo stato è devastato dal morbo. "Quando si è colpiti dall'epidemia, non ci si attiene più alle strutture
della società; l'ordine si sconvolge; la moralità viene calpestata; l'ordine
pubblico decade". Saint-Rémys
vede tutto questo davanti ai suoi occhi. Egli sente, all'interno del proprio
corpo, gli umori lacerati emettere gemiti, ritirandosi in piena rovina, e il
disfacimento della carne, che si va sfaldando come se si stesse tramutando in
carbone. "Sarà ancora possibile
curare questa malattia?" Egli,
nel momento in cui è colpito, abbattuto, polverizzato, bruciato fino al midollo
si rende conto che nei sogni non ci si aspetta di morire. Nei sogni la propria
volontà esercita la sua forza fino all'assurdo. Arriva a compiere cose
impossibili elaborando una menzogna da cui si riproduce la verità.
Saint-Rémys, credendo in questo sogno, fa allontanare una nave proveniente
dalla rotta orientale che aveva chiesto di approdare. E attua nella realtà
questo atto tirannico che scongiurerà l'epidemia.
Questo episodio di Saint-Rèmys mi fa pensare ad un doppio contatto. Il primo è
costituito da "il grande disastro, la distruzione ed l'estinzione in campo
politico e universale" portati dalla peste; l'altro è costituito da
"la caduta e la morte di re; la scomparsa e la distruzione di paesi."
dovute al sogno. Per quanto riguarda Saint-Rémys, "sovrapponendosi"
in lui entrambi gli elementi, si fa più intensa la sfumatura del dispotismo
della finzione. Però, anche se supponessimo che quello di Saint-Rémys non sia
stato un sogno, (e anche se medici e storici si dichiarano contrari) l'essenza
della peste si mostra, come una misteriosa affinità, e contagia solo la sfera
psichica. Vale a dire che nel caso della
peste, così come avviene per "un brutto sogno", non esiste un
germe che la generi. E' una cosa sconcertante ma, nel caso delle grandi
epidemie che iniziano con un topo morto, in realtà non si tratta d'altro che di
putrefazione dovuta alla finzione.
Artaud scrive sul
potere della peste:
"Sopra il flusso viscoso e infetto
color dell'oppio e della sofferenza che fuoriesce dai cadaveri insanguinati,
camminano personaggi misteriosi. Hanno il corpo cosparso di cera, un naso lungo
fino ad un metro, gli occhi come palle di vetro e portano calzature simili ai
geta giapponesi, costituite da un doppio strato di tavolette di legno, le une
sistemate verticalmente al posto dei tacchi, le altre orizzontalmente, per
evitare gli umori infetti; camminano canticchiando sutra insensati, ma anche il
favore divino non ha effetto, e alla fine anch'essi crollano tra le braci.
I medici ignoranti non fanno che limitarsi a tremare come foglie per la paura,
il loro fare e agire è uguale ad azioni di bambini. Gli uomini dei bassi fondi
irrompono nelle case spalancate, come se fossero immunizzati, dalla loro
frenetica avidità, e si appropriano
delle ricchezze altrui ma alla fine si rendono conto che questo non servirà poi
a molto."
Successivamente appare evidente la metafora tra le azioni immediate e gratuite
che si originano al culmine della pestilenza - come "figli obbedienti che uccidano i padri; famiglie stoiche in cui i
genitori stuprano i figli del loro stesso sesso; schiavi del denaro che, in
preda al delirio, sperperano le loro monete d'oro; eroi di guerra che
incendiano la madrepatria" - e
la drammaturgia dell'incontro di Artaud: il "teatro". Intendo dire che il teatro è una rivoluzione che non
ha nulla a che fare con la politica; esso significa essere avvicinati dagli
altri; o impoverirli o arricchirli, arrivare alla trasfigurazione.
Questi attori[15] - i quali hanno la qualità di precursori,
all'interno di una forma di narcisismo illusorio - sono un mezzo di
autosoccorso che "imbroglia se stesso", inoltre l'arte dell'attore di
Schechner, secondo il mio modo di vedere il teatro, non è in grado di suscitare
il benché minimo interesse.
Gli "Esercizi per gli attori" di
Grotowski, essendo rivolti ad uno scopo precipuo, sono estremamente efficaci.
Essi rappresentano un ulteriore nazione
interiore nel piccolo universo costituito dal nostro corpo, e - essendo
elementi profondamente radicati nella propria carne, coerenti dall'inizio alla
fine - eliminano tutto il mondo visibile, inteso come un'illusione.
Se esaminiamo il mondo ostinatamente chiuso di Grotowski facendo riferimento ai
principi del buddismo esoterico, ci renderemo conto che anche esso in realtà
non è slegato dalla realtà politica dell'epoca in cui egli vive. Si tratta
della storia postbellica della Polonia, ossia il ripetersi di disgrazia e
sottomissione; l'intervento politico dell'Unione Sovietica e l'esercizio del
potere militare da parte di quest'ultima, aveva portato a credere ai cittadini
polacchi che la nazione socialista, imposta loro come visibile utopia, non
fosse che una menzogna. Il pessimismo verso le "relazioni" politiche,
le spie, gli intermediari, hanno fatto nascere in Grotowski l'ideologia del "baluardo del corpo". Egli,
all'interno di uno stato che "non possedeva niente", ha arruolato 'soldati armati del proprio corpo' e ha cercato di realizzare un
teatro che fosse un generale super io sociale - facendo rifugiare questi suoi soldati
nella fortezza dei loro stessi corpi e facendo donare loro questa esistenza globale.
Nella sezione dedicata agli esercizi
vocali in L'Allenamento dell'Attore,
del 1966, Grotowski scrive: "Per
quanto concerne il pubblico - in questo caso le persone che non prendono parte
personalmente agli esercizi - esso deve rendersi "invisibile e
inudibile" agli allievi."
Ho avuto la
sensazione, in un qualche punto radicato profondamente nel mio corpo, di
comunicare tacitamente con questo pubblico invisibile
e inudibile e con quello stato federale dell'Unione Sovietica costituito
dalla Polonia del dopoguerra.
Nello stesso
articolo Grotowski continua a ripetere, inoltre, che pensare al pubblico nel
corso dell'interpretazione costituisce un errore. "L'attore pensa: - L'azione che
sto compiendo sarà compresa dal pubblico? - Questa domanda comporta
inevitabilmente la presenza dello spettatore. Così impartisco consigli anche circa il lavoro degli attori che
assistono alla scena, ma in questo modo: "Non capisco. Capisco. Capisco ma
non riesco a credere." Se un
attore scegliesse di rivolgere al pubblico le proprie azioni, questo attore, in
un certo qual modo, finirebbe per vendere se stesso."
Grotowski non
approva gli attori che cadono in una forma di narcisismo chiuso in se stesso e
indulgono in quella "prostituzione
del sentimento" dovuta alla presenza di una consapevolezza troppo
evidente di essere visti da un pubblico. In effetti, la conoscenza unilaterale
del pubblico da parte di questo tipo di attore che "mostra" è stata
generata per via degli spettatori del teatro classico; mentre per Grotowski
decade quell'atteggiamento che porta gli attori a preoccuparsi del pubblico
deve cessare di esistere. Per lo meno, per Grotowski lo spettatore non è che un
osservatore che si trova all'esterno di quel "piccolo universo
circolare" che è il teatro. Gli spettatori, composti dai consumatori, i
cannibali, i gruppi di outsiders, si
possono correlare con il "rapporto" tra Grotowski e gli attori, sotto
varie angolazioni ma non sono in nessun caso protagonisti di un'ulteriore
"rapporto". Grotowski punta contro lo spettatore un cartello di
divieto d'accesso e contemporaneamente genera nel corpo degli attori un'altra
Polonia. In ogni caso, i suoi metodi per l'allenamento dell'attore non sono né
"un metodo per l'addestramento alla guerrilla"
per riconquistare la madrepatria, né tantomeno un catechismo di Ne¢aev[16]. Essi rinunciano completamente alla trasmissione del contatto partendo dal
rifiuto dei principi della realtà quotidiana come cose "invisibili e inudibili". Gli attori
di Grotowski si esibiscono ma non coinvolgono, e il pubblico decifra la
cerimonia dei corpi che si verifica sul palco non come esperienza, bensì come
conoscenza e può percepire che il potere magico, insito nel processo di
traduzione di quest'esperienza in un'altra, va gradualmente sfumando.
"1. Parlare
alle cosce usando le mani.
2. Per esempio, parlare al soffitto rivolgendo la bocca
verso l'alto.
Proviamo a sperimentarlo in pratica:
- Provate a costruire dei dialoghi improvvisati - "Signor soffitto, riesce
a sentire la mia voce? - Non la sente?... - Ma perché non mi ascolta?" -
Questo esercizio, che il soffitto possa udire la nostra voce e rispondere o
meno, ci sviluppa l'orecchio. Il fatto di volgere l'orecchio alla propria voce
fa si che le corde vocali si
ostruiscano, così come la stesso risonanza costituisce un ostacolo.
Ora per cortesia, contemporaneamente ad un'azione concreta, agite, parlate,
discutete e toccatevi."
Così facendo Grotowski seziona il proprio corpo: egli realizza esercizi in cui piedi e orecchie dialoghino,
mani e naso facciano un coro, il dito indice e un ginocchio discutano tra loro;
o ancora, può discorrere con il soffitto, venire persuaso da un tavolo,
intraprendere una accesa disputa con una matita.
In ogni caso, qualunque cosa faccia, non cerca mai di dialogare con il pubblico
(o con altre persone).
I fatti contenuti nella memoria della gente devono essere considerati come
"inesistenti". Questo rigido precetto non può essere infranto.
Però, il limite imposto di ricercare
l'animale prescelto all'interno del proprio corpo, porterà l'attore
all'impossibilità di compiere l'incontro al di fuori di sé. La filosofia
secondo la quale le "persone intorno a sé non esistono", esagerando
l'attenzione sull'io, finisce per dimenticarsi della storia. E così capita che
"per guardare solo gli uccelli si perda di vista il cielo alle proprie
spalle".
Grotowski insegna agli attori: "Nel
caso in cui si dovesse recitare l'uccisione di un animale, il solo ricordo
concreto di cosa si sia fatto al momento di uccidere un animale nella realtà
sarebbe insufficiente. In altre parole si deve scoprire concretamente in prima
persona la dura realtà. In questo caso quanto sta ad indicare che si tratta di una cosa crudele (ossia teatrale) non per questo è sufficiente a
significare che sia anche rigoroso. Non si può neanche chiamarlo un sacrificio.
È necessario esplorare un segreto più profondo. Per esempio pensate che, in
questa scena, uccidere un animale susciti un naturale ribrezzo e costituisca un
vertice? Probabilmente non avrete niente da obiettare. Se siete di questo
parere vi prego di cercare nei vostri ricordi l'istante culminante nella
violenza del movimento del vostro corpo, il quale rappresenta un'esperienza tanto
preziosa da non poter essere condivisa con gli altri. E' questo ricordo che si
deve tirare fuori al momento di uccidere l'animale all'interno dello
spettacolo; questo ricordo interiore e concreto, pur essendo pressoché
invisibile agli occhi degli altri, a noi non può sfuggire."
Comunque, secondo me i ricordi personali ostacolano la costruzione del teatro.
Perché essi costituiscono qualcosa di troppo personale pertanto non lasciano spazio
all'introduzione degli altri. I ricordi vengono raccolti all'interno di ognuno
e unificati. Nel caso in cui vengano espressi sotto forma di recitazione
assumono la caratteristica di modello della persona che li ha generati. Per
quanto Grotowski rifiuti la "la consapevolezza come risultato".
<ESERCIZI
ASSOCIATI>
(L'allievo deve cantare una canzone mentre
evoca un'associazione con i seguenti elementi)
- Tigre
- Serpente
- Serpente che si contorce
- Coltello per tagliare
- Ascia per abbattere
La canzone che gli attori
creavano da questo compito del workshop
di Grotowski, non era frutto della loro storia personale. In ogni caso, essendo
riusciti ad eliminare la "conoscenza come risultato", c'era
differenza tra il serpente cantato da un attore e quello di un altro. Non si
trattava di ricordare un serpente, bensì di condividere, tra se e gli altri,
un'idea di serpente e creare un serpente che invisibile. Pertanto non si deve
dimenticare che può anche capitare che l'attore sia costretto a dimenticare il
suo "serpente",
A dirla con le parole di Salomone: "Tutto ciò che è nuovo altro non è che
una cosa vecchia dimenticata".
Il recitare
consiste nel dare seguito ad una reazione.
Jerry, il
protagonista di "La storia dello Zoo" di Albee[17], il quale continua a parlare ad un signore
di mezz'età seduto su una panchina al Central Park, fino a morirne, si può
definire un uomo fedele alle fondamenta del teatro. Ma in questo spettacolo di
Albee la drammaturgia, intesa come relazione, non è stata capace a risucchiare
al di fuori della scena anche l'uomo di mezza età a cui parla Jarry, in quanto
anche egli è un personaggio. In parole povere Albee finisce per rendere
personaggio anche lo spettatore. Per questo motivo, l'interesse sollevato da
Albee nei confronti di "ciò che avviene allo zoo" che consiste nello
sviluppo collettivo delle leggi e dei principi della realtà quotidiana
modificati dall'immaginazione, finisce per creare una forma che esclude lo
spettatore. Per giunta per il fatto di
riprodurre la struttura basilare del teatro e per il fatto di attuare la
finzione, il teatro di Albee fa un passo indietro rispetto a quello
contemporaneo e si allontana dall'attuazione della trasmissione del contatto.
Vorrei che
prendeste parte a questo workshop
mettendovi nella testa queste cose:
- il fatto di parlare ad uno sconosciuto; mantenere con questo un rapporto
accurato (in questo caso non importa se sia insensato) finisce col creare una
storia; lo sconosciuto viene travolto e coinvolto, essendo attratto a sé e poi
respinto bruscamente; il fatto che, o signori, in Il Giudizio, di Kafka, ci sia
un gruppo di criminali all'improvviso cattura Joseph K.; il fatto che non si debbano attirare dalla
propria parte tutti i ricordi.
Questo fu il primo workshop del Tenjô
Sajiki tenutosi nel 1971. Nel corso del suo svolgimento chiamavamo i passanti:
"Papà!" e davamo loro un testo. Gli attori fermavano un passante:
"Papà!"
Il contenuto di questa azione era la
finzione creata in precedenza, ma l'uomo che veniva chiamato si trovava nei
principi della realtà quotidiana. L'incontro era fin dall'inizio assurdo e
ridicolo. Proviamo a presentare il testo:
1. Papà!
2. Non sei il mio papà?
3. Sono io!
4. Ti sei dimenticato di me? Ma non ti vergogni?
5. Davanti a tutti. Ti prego, chiamami Masahiko.
6. (Se lo chiama) Ehi, allora non mi
sbagliavo, sei proprio papà!
(Se non lo chiama) Perché non mi chiami? Non me lo hai messo
tu questo nome?
7. Sono Masahiko! Sono Masahiko! Sono Masahiko!
8. Papà, ti senti bene?
9. Ancora non sei guarito dal tuo vizio di rubare?
10. Sembra proprio che tu non riconosca che sono Masahiko. Ma c'è qualche
motivo?
11. Ho capito! Ti sei risposato!
12. Non è così?
13. E' così, non vuoi che si sappia che 15 anni fa mi hai abbandonato al bacino
per gare motonautiche.
14. Ti scongiuro, ricordati! Quel giorno pioveva.
15. Papà, possibile che abbia dimenticato tutto?!
16 (all'improvviso, prendendolo per il colletto) Prenditi le tue responsabilità! Le tue responsabilità...
Questo esercizio viene ripetuto, a seconda delle volte, attenendosi fedelmente
al testo oppure improvvisando. Quindi nel caso di "attaccare
discorso" utilizziamo gradualmente i media:
per esempio "visite porta a porta"
oppure "usiamo il telefono".
E' inevitabile raggruppare il teatro di strada, quello per telefono, quello
porta a porta, ma questi non sono altro che un risultato estremo della trasmissione del contatto, non sono che
i media del teatro, i quali ci forniscono una forma
rivoluzionaria.
Perché chiamare "papà!" per
telefono, o andare a dire porta a porta "Prenditi le tue responsabilità!
Le tue responsabilità..."? La spiegazione è semplice: coloro che sono resi
interlocutori - sia per telefono, sia porta a porta - rispondono subito,
possono reagire, perché chiamando l'interlocutore viene meno il passaggio a
senso unico.
Durante il
dibattito aperto al pubblico incentrato su Enzensberger ho dichiarato: "E'
nostra naturale intenzione pensare alla
recitazione non come ad un media di distribuzione, bensì come ad un media di
comunicazione." "Perché secondo il pensiero di casta (le classi
speciali), finora, nel teatro ereditato dalla tradizione, gli attori hanno
ricevuto una tecnica in cui viene attuata una ripartizione di compiti.
tuttavia, secondo noi la recitazione deve consistere in una connessione
perdurante di anelli della comunicazione, non solo, ma deve anche fungere da
radice per il potere di immaginazione generato dall'azione reciproca". E'
per questo motivo che nel corso del workshop
ho sperimentato questi tipi di esercizi:
1. Ho introdotto un esercizio che prevede l'intrattenere una conversazione
telefonica con uno sconosciuto per oltre 100 minuti.
2. L'esercizio pratico di visitare porta a porta le case di sconosciuti
portando con sé un cavolo e formulare in 100 parole la richiesta di farselo
custodire per 10 giorni.
3. L'esercizio che prevede la costituzione del "dizionario enciclopedico
vivente" in grado di informarsi, ad ogni costo, su qualsiasi cosa
riguardante il suo interlocutore, nel giro di 10 minuti.
4. L'esercizio di continuare a parlare con un interlocutore sconosciuto fino a
che questo consenta a dire "io sono un coccodrillo".
Sulla parete era
stata scarabocchiata la scritta "Teatro anno zero".
In una scena ad un attore addetto alle visite porta a porta estremamente
imbarazzato era stato imposto di ripetere la frase: "La natura teatrale di
Guillome.", "La natura teatrale di Guillome.", "La natura
teatrale di Guillome.". si tratta di
una scena ripresa dal film La
Cinese di Jean Luc Godard. L'attore immagina una donna grassa che indossa un costume da bagno. Appena egli
bussa alla porta di vetro, al suo posto appare una giovane donna priva del
costume. Guillome, divenuto improvvisamente risoluto, bussa per le visite porta
a porta. Poi, rivolto una donna venuta dall'interno dell'abitazione,
inizia a declamare un versetto di Racine, ma la donna intenta a lamentarsi
della propria vita quotidiana, rifiuta il confronto con Guillome. La donna
scoppia in lacrime, Guillome si fa sempre più serio.
Riguardo a questa scena di 'teatro porta a porta' Godard spiega quanto segue:
"Temo che quel metodo difficilmente
potesse essere compreso dal pubblico. Forse invece di adottare un atteggiamento
rivolto ad una soluzione personale, sarebbe stato meglio usare un'espressione
univoca, valevole per chiunque. Per
esempio soluzioni di questo tipo: una persona canta, una suona la chitarra,
oppure un altra dipinge un quadro. Usare i testi di Racine e Sofocle partendo
da un'ottica comunista e riadattarli in
conformità al periodo e alla situazione;
se ci sono domande dai passanti o dagli spettatori rispondere
prontamente, discutere, trovare la risposta migliore, parlare con le persone
faccia a faccia, intavolando vere e proprie discussioni. Non ci sono limiti,
tutto è teatro, tutto è cinema, tutto è scienza e letteratura. Più si mescolano
elementi più il complesso migliora; anche all'università sarebbe meglio far
esporre le conferenze agli attori. Gli insegnanti universitari, quando parlano
sembrano scimmie vecchie rimbambite".
Possiamo dire
che, eccetto un punto, la visione del
teatro emergente dalle visite porta a porta di Godard ha profonde connessioni
con la mia "Teoria del teatro di
strada". In ogni caso questo punto che segna l'eccezione ha una
grandissima importanza -: Godard usa il
teatro come mezzo per arrivare a
delle soluzioni, a delle risposte. Questo si può intendere come il voler
pretendere che il teatro abbia un
ruolo. Questo perché, nel caso in cui costituisca un cane da guardia di una
determinata ideologia, il 'teatro porta
a porta', impostato sulla linea dell'insegnamento di influenza brechtiana, ha
come risultato la politicizzazione della strada, e finisce per portare ad una
divisione dei rapporti interpersonali
anziché unificarli.
Nell'estate del
1971 ho dato vita, per le strade delle città europee, al workshop intitolato Cercando
Heinrich, ideato allo scopo di allenare gli attori. Il brano che segue
riguarda la scena dell'attrice Gaby.
Gaby ha recitato ad Essen nella mia pièce L'Epoca
a Cavallo dell'Elefante Circense e, alla fine di questo spettacolo, ha
espresso il desiderio di prendere parte anche al mio teatro di strada. Così ho
ripreso le scene del suo Cercando
Heinrich in pellicola a 16 millimetri, e mi sono appuntato delle note
durante le riprese.
(L'esperimento consisteva nel girare una città vera alla ricerca di un
personaggio inesistente, chiedendo informazioni alla gente comune: Heinrich.
Così Heinrich veniva costruito all'interno della fantasia, e dalla sua inesistenza
veniva prodotto un nuovo mondo e... chissà che all'improvviso Heinrich non
apparisse...)
Gaby irruppe esagitata in una drogheria dicendo: "Non conosce Heinrich?" mentre io, dall'altro lato della
strada, inquadravo la scena con una macchina fotografica dotata di
teleobiettivo. Quando disse: "Heinrich
è scomparso!", la grassa commessa della drogheria le rispose
completamente impassibile: "Heinrich?
Mah, che vuole che le dica, sarà qua fuori!", sgranando gli occhi Gaby
le rispose: "Come? E dove?", e la commessa: "Perché non provi a cercarlo in qualche cassonetto della zona?"
Domenica in viale
Cristo c'era un vecchio cane accovacciato sulla scalinata che sbirciava con la
coda dell'occhio da questa parte.
*
Gaby: "Non è che conosce Heinrich?"
"Non lo conosce, eh?"
"E' scomparso, sa."
Passante: "Ha provato ad andare alla polizia?"
Gaby:
"..."
Passante: "Bè, questa vicenda non ha niente a che fare
con me!"
Gaby: "Heinrich è stato sospettato di essere una
spia della Germania orientale, ma è falso! Era un onesto seminarista."
Passante
(agitato): "Mi dispiace, ho fretta.
Arrivederci."
Gaby: "Aspetti, la prego. Heinrich potrebbe essere
stato assassinato!"
Passante: "Non sono fatti che mi riguardano. Non mi
interesso cose riguardanti la politica."
Gaby: "Ma signore, potrebbe trattarsi di un caso
profondamente connesso alla criminalità e alla politica della Germania."
"Cosa farà, signore, se un domani
qualcuno dovesse arrestare anche lei, nonostante sia innocente?"
Passante: "Mi perdoni, ma per carità, non mi chieda
niente."
*
Gaby se ne stava
seduta sulla scalinata. Non avendo con sé una chitarra né altri strumenti, si
limitava a cantare a proprio piacere. Sembrava che le piacesse particolarmente
un brano composto da Leo Ferré
contenuto in "I Fiori del Male" di Baudelaire.
"È partito verso luoghi lontani!
È già troppo distante!
Non vedrà mai la luce il giorno in cui lo rincontrerò.
Non conosco la tua strada, né tu la mia.
Me ne sono resa conto quando ci siamo amati." Poi un ragazzo che passava di lì le gridò:
Ragazzo: "Ehi, pupa!"
"Chi stai aspettando in un posto
simile?"
Gaby: "Heinrich, non è che lo conosci?"
*
"Il teatro
deve cercare di rendere completamente indipendente la relazione tra il punto di
vista soggettivo e l'oggetto. Ma i nostri contemporanei hanno perso la
curiosità per certe cose. Può darsi che l'abbiate letto, Moravia scrive: "La noia è il crollo di tutte le relazioni
tra soggetto (il protagonista) e oggetto (gli altri personaggi). L'incapacità
del soggetto di recuperare i rapporti significativi ormai perduti con gli
oggetti che si trovano nel suo ambiente."
Penso che quella
di cercare una persona sia un'esperienza meravigliosa, anche qualora
supponessimo che quella persona non esiste nella realtà." "Perché
Heinrich, questo spettro nel cuore che tu stesso hai costruito, sarà la tua
ricetta contro la noia."
"Per me è come se fosse un fratello."
"Insomma tu..."
"Il fatto è che sento il bisogno di una drammaturgia"
"L'anno zero del teatro! L'anno zero del teatro! L'anno zero del
teatro!"
[1]Nel
senso di condivisa.
[2]Ossia
di uguaglianza di sentimento.
[3]James George Frazer. Etnologo inglese
(1854-1941)
Famoso studioso di etnologia religiosa. Il ramo d'oro (11 voll., 1890); Totemismo ed
esogamia (1910);
La credenza
dell'immortalità
(1913).
[4]Sensazione
condivisa.
[5]Festa
che organizzano annualmente gli studenti della Todai University.
[6]
Terayama intende dire che prima l'attore
era solo un mezzo, un ripetitore di sentimenti, ossia per fare una
metafora magica: un feticcio, ora è invece capace di creare relazioni
con i partecipanti, divenendo perciò uno stregone.
[7]Nell'originale
l'autore usa il termine traslitterato dall'inglese pomp.
[8]Nel
corso della sua carriera, in un periodo particolarmente delicato, sorto in
seguito a gravi difficoltà economiche, Terayama si è occupato anche di televisione e
giornalismo, ed in particolare di cronaca. Probabilmente queste sue riflessioni
risalgono ad un coinvolgimento personale in questo tipo di vicende, avvenuto
durante quel periodo.
[9]Compagnia
teatrale fondata da Yûtaka Takashi dopo aver lasciato il Tenjô
Sajiki.
[10]In
giapponese: "gukôgeki".
[11]Cognome
traslitterato dal giapponese. L'autore di Barbablù è Charles Perrault, stranamente il
nome corrisponde. È possibile che, nel caso del cognome, si tratti di un
errore di trascrizione.
[12](1894-1939)
Autore di gialli e romanzi polizieschi composti sotto l'influenza del mystery
occidentale introdotto, in traduzione, fin dalla restaurazione Meiji (1868).
Appassionato studioso e critico del mystery
viene riconosciuto come il fondatore di questo genere in Giappone. Le
sue storie erano pubblicate sulla rivista Shinseinen,
(Nuova gioventù), fondata nel 1920, specializzata nella giallistica, che
accoglieva altre al suo contributo, quello degli altri primi scrittori giapponesi
esperti nel genere. Il suo nome
costituisce uno pseudonimo generato dalla traslitterazione in ideogrammi,
modellata sulla pronuncia giapponese, di 'Edgar Allan Poe'.
[13]Si
fa qui riferimento a un'ondata di pestilenza che in una sola notte, stando a Erodoto
e alla Bibbia avrebbe sterminato cento ottantamila soldati dell'esercito
assiro, salvando in questo modo l'impero egiziano. Questa notizia viene
riportata da Antonin Artaud in "Il teatro e il suo doppio"
nell'ambito della sua descrizione della pestilenza e del suo effetto sul
teatro.
[14]Terayama
fa riferimento a "Il teatro e il suo doppio" (Le théâtre
et son double), una raccolta di saggi e articoli sul teatro pubblicata nel 1938
in cui Artaud esprime, tra le altre idee, la sua concezione di 'Teatro della
Crudeltà'
[15]Quelli
facenti parte del workshop di
Schechner.
[16]Sergej
Gennadievi¢
Ne¢aev,
Rivoluzionario russo (1847-82) Fondò l'associazione rivoluzionaria La Società
della Scure.
[17]Edward
Albee (Washington 1928) drammaturgo statunitense. Tra i suoi atti unici più
noti figurano Zoo Story (1959), The Death of Bessie Smith (1969), The American Dream (1961) e i drammi Who's afraid of Virginia Woolf? (1962) e
A Delicate Balance (1966) nei quali elabora
tecniche ed artifici del teatro dell'assurdo per conferire vigore scenico alla
sua aspra analisi delle nevrosi dell'America contemporanea.