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PARTE IIIª
TEORIE SULL'ATTORE

 

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CAPITOLO 1°

L'ATTORE È UN SOSTITUTO?

 

Per gli spettatori del teatro moderno gli attori non  sono altro che dei sostituti (stand for) degli individui. L'attore prende il posto dello spettatore, incarna per esso un'altra realtà e sperimenta la morte al suo posto. In  questo senso, l'attore rappresenta per il pubblico l'esistenza simpatica[1], e si trasforma in somiglianza che genera un'altra somiglianza oppure un risultato che somiglia all'origine.
Questo spiega il perché la recitazione si basi sugli stessi fondamenti della magia, la quale sta a capo di tutte le regole della somiglianza.
Intendo dire che sia la recitazione, sia la magia hanno per nucleo il principio di "simpatia"
[2], la quale si origina proprio a causa dell'uso dell'imitazione.
Per esempio, un ambizioso uccide un superiore pensando di poter prendere così in mano il controllo del potere. "Se l'atto finisse con il suo compimento, sarebbe meglio che fosse fatto presto. Se l'assassinio potesse intrappolare le conseguenze, e afferrare con la sua esecuzione il successo, così che questo colpo potesse essere il principio e la fine di tutto - qui, solo qui, in questo banco in secca del tempo - allora, se con questo tutto finisse, la vita futura a chi importerebbe più? Però in casi come questi, la giustizia viene anche nel nostro mondo, per chiunque.
Istighiamo azioni malvagie e sanguinose e causa ed effetto, rovesciandosi, travolgono l'autore.
 La giustizia, dalla mano imparziale, spinge la coppa avvelenata alle labbra del servo che l'ha riempita."
(Macbeth atto I, scena VII)
Il re che viene assassinato in questa tragedia, assume nell'immaginazione degli spettatori l'aspetto di una statua. L'omicidio è solo un gesto, e sul palco non scorre certo sangue vero, ma, non di meno, il pubblico ha modo di sperimentare a sufficienza la brutalità della storia. Potremmo dire che un ruolo simile costituisca una prova della qualità magica della recitazione. Quanto detto,  per esempio, calza perfettamente al seguente passo tratto dalla definizione di magia di Frazer
[3] "Si  crede che l'applicazione generale della magia, apporti danno al nemico (oppure lo uccida), nel caso in cui se ne danneggi (o distrugga) il feticcio;  per ogni sofferenza inflitta all'immagine, immediatamente, in pari misura, soffrirà la persona che essa ritrae; mentre, se l'effigie verrà distrutta, in quel momento il suo possessore morirà.
Queste pratiche si sono tramandate in molte epoche e sono praticate da numerose popolazioni
."
Gli indiani d'America credono che se si dipinge sulla sabbia, sulla cenere o sull'argilla, l'immagine di una persona, e si pone che quell'immagine sia il suo corpo, infilzandola con un bastone appuntito o usando altri metodi per danneggiarla, si apporteranno gli stessi danni equivalenti al corpo dell'uomo che quest'immagine rappresenta.
La sostituzione tra immagine e persona oggetto della maledizione si adatta perfettamente, senza bisogno di modifiche, alla sostituzione che oggi compiono gli attori.
Frazer scrive: "Il possedere un'immagine somigliante al soggetto interessato, usata di solito con scopo malvagio, scaccia da questo mondo le persone non desiderabili, ma, sia pur raramente, esistono casi in cui questa magia venga utilizzata per scopi positivi volti ad accompagnare le persone in questo mondo".
"L'immagine" costituisce un simbolo, non un'esistenza.
Nel caso della bambola di cera bruciata sul fuoco per sette giorni e sette notti, gli spettatori fanno coro: "Quella che noi bruciamo non è cera, è il fegato, il cuore, la milza di Macbeth."
La "simpatia"
[4] e il contagio sostengono la  teoria della recitazione facente parte del teatro d'azione che fino all'epoca moderna "usava  l'attore come surrogato".
È necessario inoltre andare ad indagare  cosa abbia rappresentato l'attore per l'autore.
Per l'autore l'attore era un tramite, un portavoce, un simbolo. Gli attori si curano di trasmettere il più fedelmente possibile il pensiero dell'autore, perciò quando Macbeth dice: "Domani viene, domani passa, poi di giorno in giorno, a piccoli passi, il piano del tempo scivola e cadiamo, fino all'ultima sillaba del tempo previsto. E tutti i nostri ieri hanno illuminato a degli stolti la via che porta alla morte nella polvere.
Spegniti. Spegniti, breve candela! La vita non è che un'ombra in cammino. Un povero attore, che si pavoneggia e si agita al momento della sua apparizione sulla scena, e poi si spegne. Come le chiacchiere di un idiota, voci confuse e piene di furore che non significano nulla."
(Macbeth atto V, scena V) gli spettatori  pur illudendosi per un istante che sia la voce dell'attore a dire: "...Si pavoneggia e si agita al momento della sua apparizione sulla scena, e poi si spegne..." capiscono in seguito che in realtà si tratta della voce dell'autore che parla tramite l'attore. Il pubblico, accettando questa sovrapposizione come "teatro", decide di passare una serata divertente andando ad assistere ad uno spettacolo.
La fiction del castello scozzese del Macbeth, in realtà rappresenta l'allegoria di un'enorme repressione.
I personaggi rinunciano a tutte le parole proprie dei principi della realtà, e divenuti muti, assumono e si spartiscono le parole di Shakespeare. In questo caso gli attori, oltre a duplicare l'immagine del mondo perfetto del copione si muovono come se fossero stati programmati e parlano una lingua che è stata programmata (il copione); essi non hanno altre vie per sopravvivere. Macbeth dice: "Si agita e si pavoneggia sulla scena per il momento della sua apparizione" ma in realtà viene fatto "agitare e pavoneggiare" perché la voce naturale dell'attore che impersona Macbeth non si esprime neanche per un istante.
Finora l'attore non era stato altro che una bambola magica di cera, schiava del copione, che voleva mostrare solo di saper parlare.

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CAPITOLO 2

OSSERVAZIONI CAPITALISTICHE SUGLI ATTORI

 

Manfred Fubricht, critico e traduttore delle mie opere in tedesco, definisce la condizione dell'attore come "prostituzione del sentimento".
Gli attori, non avendo la possibilità di usare parole proprie, devono cercare di parlare il più possibile con le parole dell'autore, e hanno la tendenza ad eccedere nel sentimento, ma spesso esprimono il sentimento in una quantità tale da non poterne contenere più nel recipiente delle parole e per poter continuare a riempirlo arrivano a  farlo straripare e finiscono per inzuppare tutto ciò che vi è intorno.
Gli attori sperano di essere amati da milioni di persone e per strappare l'applauso, sono pronti a  svendere un ipocrita sorriso lacrimoso. Perciò potremmo dire che, oltre a praticare una prostituzione del sentimento, pratichino allo stesso tempo una "prostituzione dell'applauso".
Gli attori per ottenere soddisfazione all'interno di una realtà fantastica,  scelgono di sacrificare i principi della realtà.   Inoltre hanno, ad esempio, la tendenza a dimenticare che, pur essendo scampati alla politicizzazione, essi sono rimasti prigionieri di un altro giogo.
Sulla scena c'è una parete. I personaggi agiscono al suo interno, ma essi non sono soltanto personaggi, sono anche gli attori che li impersonano. In questa parete vi è una porta. Ma la distanza di appena venti centimetri tra il pomello della porta e la mano dell'attore, per assurdo, non è riducibile in alcun modo. L'attore, secondo copione, grida: "Fammi uscire fuori di qui!" Ma fino all'ultima pagina non c'è scritto che lui debba uscire, aprendo la porta. Non ha possibilità di scampo. Tutto è prefissato dalla trama, composta dall'autore sulla scrivania del suo studio. Forse in questo momento l'autore starà facendo uno sporco gioco con la giovane figlia, oppure sarà in un ristorante qualsiasi a sgusciare granchi sott'aceto. Il fuori e il dentro, del "muro" del personaggio non possono essere modificati da nessuna data politica, né dalla reazione del pubblico. Quando il personaggio grida dalla parte interna della parete "fatemi uscire!", è perfettamente consapevole che non potrà farlo né stasera, né domani, né quella dopo, fino all'ultima rappresentazione. L'attore è il traditore dell'ideologia romanesque perché pur sapendo per certo cosa avverrà domani, continua spudoratamente a vivere fino a quel giorno. Certo, se l'autore è vivente, potrà tirarlo fuori con una semplice penna. La sua fuga da dietro la parete è realizzabile inserendo una semplice didascalia: 'L'uomo esce sfondando la porta a calci.'
La forza dell'autore è assoluta se il cast riproduce i suoi scritti fedelmente. Finora la struttura del "teatro" è stata fondata basandosi su questo tipo di cast e su una decina di persone interessate che correvano in ogni direzione per l'immaginazione di un re chiuso all'interno del suo studio. Gli attori si dividevano le parole come se a dei vassalli si distribuissero i gusci, e vivevano come schiavi l'immaginazione di un altro uomo perché  "un ombra che cammina" non sta a rappresentare la vita di Macbeth ma la vita dell'attore stesso.
Da molto tempo nutro dei dubbi circa la definizione di un simile attore-sostituto e quell'attore che diventa una bambola per il principio di somiglianza di sentimento.
Prima di tutto il fatto che ci si ponga domande come queste: "Cos'è l'attore per gli spettatori?", "Cosa per l'autore?" mi pare già un cattivo segnale, perché la domanda dovrebbe essere posta in questi termini: "Che cos'è l'attore per gli attori stessi?"
Durante la festa di Komaba
[5] all'università di Tokyo, ho tenuto sull'attore questa conferenza:

 

IO: "Vorrei porre l'attenzione sul fatto che viene data all'attore una funzione simile a quella della moneta; questo deriva soprattutto dal problema di scambio e di divisione del lavoro.
La divisione dei compiti nella società ha ostacolato la comprensione unitaria del mondo. A questo riguardo vi racconterò, come esempio, del modo in cui abbiamo deciso di farci fare i vestiti che indossiamo e le scarpe che calziamo dal sarto e dal calzolaio. La capacità di scambio si è andata ampliando gradualmente; si è detto che questo fatto, oltre a dare vigore allo sviluppo di una società industriale, arrivi fino a rendere possibile uno scambio reciproco umano.
Adam Smith dice che questa suddivisione dei compiti non è casuale ma trova una base nella capacità peculiare degli esseri umani di usare il linguaggio e la ragione.
Smith arriva a concludere che il motivo dell'introduzione della suddivisione dei compiti, più che essere la 'dignità umana', sia l'"egoismo".
Non voglio dire che dignità umana ed egoismo siano in contrapposizione, ma è importante che si faccia attenzione al fatto che la varietà del genio umano è il risultato e non l'origine della suddivisione dei compiti. Dal momento che né cani, né scimmie sono capaci di organizzare degli scambi, non essendo in grado di combinare elementi differenti, essi non sanno ottenere profitto da una situazione di collaborazione socializzata. Nel caso degli esseri umani, invece, scambi e suddivisione dei compiti (visti come  espressione della differenziazione di un'unica forza essenziale e di un'unica attività) si sono ingranditi rapidamente. Così è apparsa la moneta, come segno di mediazione. La definizione di moneta si adatta ad un certo tipo di attore.
Da "Manuale di filosofia ed economia" di Marx ho estratto il brano sulle monete. Riguarda la sezione in cui si legge:
 "Le monete possono comprare qualunque cosa, e possiedono la qualità di trasformarsi in qualunque oggetto e per questo il loro significato è enorme. L'universalità di questa caratteristica le rende onnipotenti. Il denaro costituisce il legame tra il desiderio e il suo oggetto, tra vita umana e  mezzi per vivere. Tuttavia a  fare da mediatore tra ogni individuo e la sua stessa vita, vi è l'esistenza di altre persone, o, per meglio dire, 'gli altri visti secondo la propria ottica'. "
ora, se  proviamo a sostituire la parola 'denaro' alle sei lettere della parola 'attore',  il senso di questa frase non cambia di molto:
 "L'attore può cambiare qualunque cosa e ha la capacità di trasformarsi in qualsiasi soggetto, per questo il suo significato è eccelso. L'universalità di questa sua capacità lo rende onnipotente. Egli lega desiderio e oggetto, vita umana e mezzi di sostentamento. E' questa secondo me la natura di un ruolo. Ma mediando tra ogni individuo e la sua stessa vita, egli media l'esistenza degli altri confronto all'individuo stesso."

IO: Nel Faust di Goethe, Mefisto faceva sorridere il pubblico dicendo: "E' naturale. Di sicuro, testa, gambe, mani, sedere, sono tuoi, ma questo non significa che non siano tue anche le cose di cui sei entrato in possesso di recente.". Tuttavia il fatto che si possa acquistare con il denaro un mestiere o il carattere, vale soltanto all'interno dei principi della realtà, ma una persona può anche raggiungere il rango di re oppure avere la propria figlia. Cose possibili per l'attore quando recita nel ruolo di un re o nel ruolo del fidanzato accanto alla  figlia.

La capacità di trasformazione non è una prerogativa unica delle monete. Tra gli attori, per il fatto che viene loro assegnato un ruolo, una donna insignificante può trasformarsi in una Venere e uno zoppo può avere ventiquattro gambe. Macbeth ci rivela che è stato Shakespeare a definire il denaro nel modo più appropriato, ma è una cosa naturale. Nella mente di Shakespeare c'è stato uno scambio senza sosta non solo tra "cosa e cosa" ma anche tra "persona e persona". Due tra le qualità della moneta sottolineate da Shakespeare sono:
1. E' una manifesta divinità, in grado di cambiare la natura di oggetti ed esseri viventi nel loro contrario, mischia alla rinfusa tutte le cose e le sconvolge, il che equivale a cercare di rendere amici due compagni incompatibili.
2. Nei confronti delle persone essa costituisce un bordello legalizzato, che si trova ovunque tra la gente di vari paesi.
Tutto questo si collega profondamente con la teoria dell'attore di Shakespeare.
E' comune l'idea che si diventi attore per trasformarsi, per diventare una persona diversa da sé, per visitare posti nuovi, ma alla base di un aspirante attore c'è un sovvertimento generale della personalità, in grado di mutare un aspirante banale, in un carattere esattamente opposto. Tuttavia  la eventualità che le persone siano sostituibili come merce qualunque è una questione lasciata in sospeso da molto tempo. La fantasia che libera il corpo dell'attore da qualunque limite, nasce proprio nel momento in cui la trasformazione del  corpo dell'attore è limitata dalle sue parti differenziate. È  dominante il pregiudizio secondo il quale la distanza tra desiderio e il suo oggetto possa essere ridotta privilegiando il corpo.
IO: Però all'interno di un singolo attore non c'è unicamente la sua essenza "sociale", la sua qualità di singolo indipendente, ma anche il caos della sua vita interiore.
Egli, essendo distinto dagli altri uomini, assume un ruolo di mediatore dello scambio di valore. E questo non è compito facile. Un errore generalmente commesso dalle compagnie consiste nell'assegnazione dei ruoli: la sostituzione deruba l'attore del proprio carattere e lo rende niente più che un sostituto, un riproduttore. Ma l'attore non diventa certo re per il fatto di indossare una corona. Se è adatto al ruolo lo scambio di valore sarà possibile e quindi l'attore potrebbe rimanere se stesso. Resta insoluto il problema se si possa essere un re essendo contemporaneamente se stesso oppure se non si abbia il diritto di scambiare il valore.


 

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CAPITOLO 3

L'ATTORE COME MAGO

 

Comincio a considerare l'attore del passato, inteso solo come un 'condivisore' del sentimento, alla stregua degli attrezzi usati per le pratiche di magia nera (sagome umane e bamboline di paglia); mentre ora, secondo la "mia arte dell'attore", egli ha a disposizione la via che porta ad un rapporto diretto con i partecipanti allo spettacolo. In questo modo egli assume il ruolo di stregone[6].  Quantomeno  l'attore non è più un sostituto che ripete un "copione dato" e mette in mostra un'"azione  data"; egli necessita al contrario di una situazione magica in grado di suscitare e di un insieme di capacità per creare nell'ambito dell'immaginazione.
Ora gli attori non 'si fanno vedere', né tantomeno 'mostrano', ma 'suscitano' e 'trascinano'.
Costruire relazioni prive di via di scampo è il primo passo verso l'arte dell'attore.

In seguito, un workshop del Tenjô Sajiki  ha fatto diventare questo postulato il soggetto principale delle nostre ricerche e da quel momento  in poi abbiamo deciso di mantenerlo.

Per prima cosa scriverò sull'idea di "stregone".
1. La magia si riscontra in varie società; essa, pur contenendo il sistema della realtà quotidiana, è precisamente distinta dalle regole riguardanti i fatti reali. Intendo dire che la magia, pur essendo finzione, non per questo viene respinta al di fuori dei principi della realtà quotidiana.
2. L'azione magica, simbolizza varie idee e credenze religiose. Inoltre, se guardiamo questa azione dal punto di vista della realtà quotidiana, noteremo che essa è una cerimonia il più delle volte a carattere misterioso ed esoterico.
3. La prerogativa originale della magia è l'organizzazione della casualità con la forza del sentimento e l'immaginazione.
4. Accade che le varie azioni, che dalla cerimonia religiosa, dalla tecnica e dall'azione legale, arrivano fino all'attività politica, vengano confuse con l'azione magica. Ma in realtà esse sono cose del tutto distinte anche se si confondono per la somiglianza della parte che le differenzia.
5. L'antinomia della magia è politica.
La magia ripetuta due volte, diventa espressione, ma i fatti politici ripetuti due volte diventano commedia.
6. Come afferma Marcel Mauss si crede che gli stregoni non abbiano l'ombra. I loro occhi hanno la pupilla dilatata fino a contenere tutta l'iride e il riflesso che vi si posa rimane imprigionato.
7. Anche lo stregone, oltre gli attori, si fa notare e temere per le speciali qualità fisiche, come l'essere ventriloquo o prestigiatore, o acrobata, e per abilità straordinarie; egli diventa il bersaglio del disgusto del pubblico.
Gli stregoni hanno bisogno di 'leggenda'. Per questo gli stregoni australiani hanno nella lingua un buco aperto dallo spirito e sul ventre una cicatrice di un'incisione. Se si chiede loro di che cosa si tratti, risponderanno che sono state loro cambiate le viscere. Si dice che il buco nella lingua degli stregoni delle isole Banks sia stato fatto da un serpente blu scuro. Essi  oltre a essere 'invasati' sono degli 'esseri che hanno il potere di possedere'.
Si pensa che l'espressione simbolica di questi stregoni - pur  cambiando essi forma nella società moderna - sarebbe per gli attori, chi più chi meno,  un elemento indispensabile.
Un determinato tipo di attore, il giorno della prima, recita imitando le sue esperienze personali, successivamente, dal secondo giorno in poi, interpreta l'imitazione della sua esecuzione del giorno della prima; questa riproduzione della gestualità non può raggiungere la verità spirituale.
Il bravissimo attore Hijikata Sen della Garumera Shôkai una volta ha detto: "Io ho dentro di me la mia sorella maggiore.", si è  raccolto i capelli dietro la nuca,  come una donna anziana, e ha iniziato a parlare con la voce sommessa di una vecchia. Una simile espressione è equivalente alla capacità dello stregone non solo di percepire al suo interno  l'esistenza di caratteri altro da sé, ma di arrivare fino al punto da estinguere il proprio carattere; inoltre la stessa duplicazione della psicologia, della fisiologia e del carattere sono forse comunemente attribuite alla possessione demoniaca?
Comunque sia, l'attore avendo uno spirito particolare, deve essere l'uomo capace di provocare la possessione demoniaca,  per far questo necessita, non solo dell'esercizio della carne, ma anche di generare una peculiare forza d'influenza.

IO: "La pratica dell'attore non è qualcosa che si possa insegnare a scuola. A scuola si possono insegnare le tecniche, ma nell'ambito della recitazione le tecniche occupano un'importanza molto piccola. Gli elementi che vengono riportati alla luce con l'allenamento dell'attore, come una citazione dal sutra Patanjali, portano gradualmente ad uno stato di trance con la nascita, piante ed alberi, formule magiche, l'astinenza e l'intensità.
Ad esempio, si racconta che in origine della tribù Maringu, il futuro stregone (Murup - l'attore) abbia aperto la tomba di una vecchia, e dopo essersi coricato accanto ad essa, le abbia tagliato la pelle del ventre. Poi, mentre era addormentato, la pelle lo aveva trasportato nei cieli, dove  si era imbattuto negli spiriti e negli dei. Essi  gli insegnarono i riti e le formule magiche. Superata questa cerimonia di tabù, penitenza e attriti, oltre ad essere stato ammesso ad un'esistenza particolare, egli assunse la connotazione di uomo passato dalla società della realtà quotidiana, di cui aveva fatto parte fino a quel momento, ad un'altra società diversa,  distinta da caratteristiche particolari.

Mi capita di sognare di tenere in mano un'accetta grondante di sangue, è molto probabile che nel sogno abbia ucciso qualcuno, ma non so chi sia e per quanto mi sforzi di ricordare inciampo sempre in qualcosa. Molti ritengono impossibile essere introdotti nel sogno di un'altra persona. Ma sia gli attori che gli stregoni sono costretti a rinunciare al sogno 'privato'. Per questo il teatro, cioè il sogno di proprietà comune, organizza l'incontro progettando di fantasticherie di gruppo.
L'attore, per dare un senso alla propria entrata in scena, deve inventare un linguaggio proprio, e, affinché la situazione magica si possa esprimere, egli deve essere dotato di una forza tale che gli permetterebbe di saltare anche se non avesse le gambe.
 Antonin Artaud dice: "Si pensa al testo come qualcosa di santo, ma la cosa più importante è rompere la subordinazione al testo teatrale e riscoprire l'idea di un linguaggio unico che si trovi a metà strada tra pensiero e azione." Ma, secondo me, questo non è sufficiente. L'attore, oltre a rifiutare, ciò che viene fornito del tutto a priori, per di più, deve avere la forza di scoprire un linguaggio unico, e deve riuscire superare tutti "i dialoghi",  "le scene", "l'immersione nella natura del proprio ruolo dovuta al sistema Stanislavskij", "l'idea della duplicazione implicita nella domanda di Brecht: - il teatro può riprodurre in mondo? -", "il confine tra realtà e finzione", dati a priori.
Questo gruppo di "apriorismi" costituisce una barricata. Solo la tigre (l'attore) che può superarla può avere la capacità di sorreggere il mio teatro.
Grotowski ha spiegato la separazione definitiva tra attore e testo come segue:
INTERVISTATORE: "Ha detto che non si può recitare seguendo un testo, perché l'attore non è né Giulietta, né tantomeno l'autore della tragedia. Che cosa significa?"
GROTOWSKI: "Parliamo e ci esprimiamo, e, mentre calcoliamo i pensieri, si può dire che in cattivo senso possiamo "recitarli". Questo è il fasto
[7] umano.
Se  un attore dicesse: "ora devo decidere di scoprire le mie associazioni inconsce e la mia esperienza personale, e devo trovare un partner fidato", egli  sarebbe sicuramente molto attivo, ma se, al contrario, avesse già riassunto tutto in una prosa elegante, somiglierebbe soltanto un uomo che si sta confessando in questo momento e la confessione sarebbe inutile. Se invece egli, abbandonata questa situazione confortante e sicura, si ritirasse nel suo io, sinceramente, l'armonia ricondurrebbe il corpo facendo ricorso ad esperienza individuali, e mostrandole all'esterno, svelerebbe una verità molto difficile. Questa passività interiore rappresenta per l'attore un'occasione da acciuffare."
E difficile scoprire a partire da questi limiti espressi da Grotowski le sue reali intenzioni, ma penso chela questione sia l'incontro tra attore e testo.  L'attore non interpreta il testo; gli è richiesta l'espressione impulsiva che nasce dai punti di contatto tra attore e testo. Grotowski da molta importanza alla forza di associazione dell'attore. Ma, il limite che si crea dall'atteggiamento di Grotowski è costituito dal fatto che per gli attori non è possibile andare oltre la sua suscettibilità, né oltrepassare  la sua immaginazione; e così, senza accorgersene, il calcolo finisce per respingere la casualità e la violenza.

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CAPITOLO 4°

L'INIZIO DELL'ARTE DELL'ATTORE

 

Secondo me l'esistenza dell'attore deve adempiere il compito di "trasmettere il contatto". Frazer definisce questo contatto alla stregua  di della magia: "Anche dopo che il contatto fisico è cessato, la distanza accresce ancor più l'azione reciproca."
La legge del contagio è, come tale, la legge di trasmissione insita nell'attore. Io essendo infettato dall'attore provo ad escogitare un metodo che usi la metonimia in una "situazione teatrale" che è stata tramutata in peste.

Il mattino del 16 aprile, il dottor Bernard Rue, apprestandosi ad uscire dal suo ambulatorio incappò, nel bel mezzo della scalinata in un topo morto. In un istante, senza perdere la calma, lo spostò e  proseguì per le scale. Però, una volta giunto in strada, cominciò a pensare che quel topo si trovava in un luogo strano e, tornato indietro, avvisò il custode.
Si disse: "A pensarci bene, in questo palazzo di topi non ce ne sono. Probabilmente questo lo devono aver portato da fuori. Sarà stata una bravata."
 Il fatto di essere "introdotto dall'esterno" costituisce il primo contatto con il teatro.
Proprio il topo morto inoltre, dà il via ad un contatto verso un'ulteriore realtà, lo stato del mondo della finzione (nel romanzo, questo elemento esprime la "morte" della realtà quotidiana). Il topo morto è, a seconda delle occasioni, un simbolo linguistico, una metafora del recitare, di un'azione, di un comportamento. Inoltre, il topo morto che viene apportato dall'esterno in  "A Prima Vista, una Comune Cittadina", viene utilizzato dal ruolo dell'attore che tira le fila della finzione.
La tecnica dell'attore dipende dalla sua capacità di generare delle relazioni e dalla sua forza di adesione grazie alla quale egli può ottenere il contatto. Sia la capacità di far riapparire i fatti (ossia la realtà), sia la tecnica di generare una riproduzione delle azioni, sia la capacità interpretativa che mimetizza la propria pazzia, non vanno oltre un'esposizione comportamentale sul palco di quel genere di uomini denominati 'attori'. (Ciò, naturalmente non significa che noi siamo all'oscuro del fatto di costituire uno "zoo" dei divertimenti Come si vanno a vedere le scimmie e le tigri, si possono anche andare a vedere i sentimenti di gioia e rabbia di alcuni mammiferi appartenenti al genere degli attori. Introdotti nella gabbia di Shakespeare e di Strindberg, si potrà sopportare una ragionevole noia. Ma tutto ciò rimane un avvenimento all'interno della gabbia, assolutamente estromesso dai principi della realtà quotidiana presenti all'esterno di esso.)

La drammaturgia (fiction) consiste nel mettere in relazione spettatori e attori. Nel contesto dell'incontro prodotto dal teatro, essa elimina l'idea di separazione classista tra attore e spettatore, producendo una relazione di collaborazione reciproca, e a partire da questa organizza la casualità, sulle basi di una consapevolezza di gruppo. L'eroe di Sartre dice: "Garçon, l'inferno riguarda gli altri." Anche la realtà che cerchiamo di separare da noi, definendo le persone come "gli altri", non potrà essere slegata da noi. Un piccolo articolo su un suicidio per annegamento stampato in un cantuccio del giornale; gli annunci di persone scomparse, la guerra scoppiata al confine meridionale; il discorso per la riconquista della madrepatria tenuto dai dirottatori; le capricciose asserzioni sul ritiro di Brigitte Bardot; i segreti militari americani riguardanti il bombardamento della Cambogia; il crollo del prezzo di mercato della sterlina inglese[8], nessun fatto può essere considerato come "un problema altrui". Allo stesso modo è impossibile accogliere qualsiasi cosa come un problema personale. In questo caso lo spazio tra gli altri e se stessi, nell'accettare la situazione, la classifica. Esso diventa le scienze politiche delle masse. Spesso ci separiamo da noi stessi per il fatto di costituire, proprio noi, il "problema altrui". Successivamente, mantenendo questa distanza, consolidiamo la cosiddetta sfera individuale. Prendiamo la vita di una famiglia che ha totemizzato la lavatrice come quella di "A Prima Vista una Comune Cittadina". In questo brano, gradualmente, il concetto secondo il quale "l'inferno riguarda gli altri" inizia a mutare riguardo alla verità.
Il disinteresse respinge il contatto, ignora l'incontro casuale, la calma relativa che è stata acquisita, la separazione definitiva tra realtà e bugia.
Sullo schermo televisivo viene perpetrato  un omicidio, che è garantito per falso, perché alle famiglie che assistono alla scena, è stata promessa, a questo prezzo, l'inviolabilità.
In questa realtà quotidiana un giorno qualcuno introduce dall'esterno un topo morto e  questa azione contiene l'inizio di tutto poiché la finzione, affidata al topo, lega alla forma originaria e riorganizza la realtà con l'aiuto della forza d'immaginazione, ristabilendo così la casualità "dell'incontro" - che a questo punto è ormai inevitabile. Il topo morto, risveglia la città dal sonno nei confronti dei problemi altrui e fa appello al bisogno di separarsi. Il teatro è  caos e, per questo, gli attori eliminano l'orizzonte tra sé e gli altri, e trasmettono un contatto scevro da ogni sorta di discriminazione.
Ho detto ai membri della compagnia: "Nel caso in cui tramite il teatro vengano fatti incontrare coloro che considerano l'inferno un problema che ririguardi gli altri, l'intrusione di bugia e finzione all'interno della realtà, rende "l'incontro" fiction e tende a trasformare in spettacolo la fusione che si crea tra sé e gli altri; in altre parole, significa far incontrare l'inferno."

 

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CAPITOLO 5 

LA PRATICA DELL'ALLENAMENTO (I)

 

Proverò a spiegare, ricorrendo ad esempi concreti, quale debba essere l'addestramento dell'attore affinché egli possa, nella sua qualità di mago, trasmettere il contatto.
Nell'estate del 1969 ho radunato a New York un certo numero di attori americani per allestire un workshop riguardante mie opere.

Ôshima Kazuko, la mia interprete, mi ha telefonato in albergo: "Perché non andiamo ad assistere al workshop del professor Schechner?". Ho preso il mio caffè mattutino in un cafè economico di East Bridge, e mi sono diretto al luogo della dimostrazione, insieme a Higashi Yûtaka  dei Kid Brother[9] di Tôkyô che, in quel periodo, stava riscuotendo un buon successo a Broadway con Yokogane Baddo.
Svoltato un vicoletto del quartiere dei magazzini, siamo sbucati in una strada deserta, c'era un piccolo teatrino in cui il teatro del ridicolo
[10] stava rappresentando  "Barbablù" di Charles Radoramu[11].
Sei o sette tra i membri della compagnia avevano già indossato i loro abiti da allenamento e iniziato a fare una leggera ginnastica. Quando  chiesi alla signorina Ôshima per quale motivo Schechner non ci mostrasse un workshop mi disse: "Perché basta che ci sia anche un solo spettatore e questa cosa diventa teatro.".
Poco dopo il maestro Schechner è entrato in scena sporgendo da un ventre  e ha impartito due o tre indicazioni agli attori, portava dei baffetti alla cinese, come una foca del mar Egeo. A quel punto gli attori hanno iniziato a dimenarsi e contorcersi sulla piattaforma. Quattro di essi hanno cominciato a compiere alcune azioni, come emettere le grida degli uccelli o fare sesso nella posizione dei cani. Era uno spettacolo singolare. Un attore completamente nudo rotolava come un tronco; un'attrice come se vomitasse tutta l'impurità contenuta all'interno del suo corpo, cominciava a rigurgitare le parole che aveva trattenuto fino a quel momento; Schechner, , a voce sommessa stava tirando fuori, parola per parola, ad un'attrice che gli stava di fronte, la quale sembrava in una condizione deprimente, il suo mondo interiore da cui era rimasta chiusa fuori, come un analista che esamini un paziente che abbia perso la memoria. Questa era l'utopia di un incubo chiamato workshop, nel quale, tutti gli attori che vi prendevano parte erano molto distanti dalla vitalità umana.
Mi ha fatto venire in mente Panorama Shimazakidan di Edogawa Ranpo
[12].
"Questi", ci ha spiegato Schechner, "Sono esercizi che servono ad eliminare la repressione. Gli attori, eliminando gradualmente gli attributi della realtà quotidiana, diventano liberi. Dal momento che si tratta di individui, essi vengono ricondotti al loro corpo individuale".
Comunque sia questi esercizi non mi sembrano importanti per la "formazione di un attore"; il problema non è costituito dai mezzi ingannevoli e ipnotici usati da Schechner per addestrare gli attori, perché i loro camuffamenti (come ad esempio quello del malato psichico, o cose simili) sono per metà inconsapevoli, insomma: non fanno altro che "auto illudersi". Questa mia impressione si è andata chiarendo gradualmente.
Ho provato a riassumere le mie impressioni sul workshop di Schechner:
1. La sua pretesa di eliminare le repressioni sociali non si risolve forse nel imporre una nuova repressione? (Questa nuova repressione nasce dal separare in maniera coercitiva l'individuo da tutte le relazioni. Si tratta di una repressione chiaramente sessuale.)
2. Non potrebbe essere che, per via della caduta in uno stato di allucinazione, gli attori non è che si liberino ma, più semplicemente, perdano soltanto l'idea di libertà?
3. Se questa condizione, consistente in una recitazione auto reprimente, venisse proposta in maniera estemporanea nella vita quotidiana piccolo borghese, finirebbe per essere catalogata come un oggetto di curiosità di un museo di personaggi bizzarri e, in un batter d'occhio,  diventerebbe semplicemente un oggetto di spettacolo, una forma di compensazione della società.
4. Nella strategia del mago sono previsti camuffamenti ed imbroglio, ma nel caso del workshop di Schechner, pur essendoci il camuffamento, manca l'imbroglio. (O almeno, l'unico ad esercitarsi nell'imbroglio è solo Schechner e non gli attori).  Gli attori né "parlano" con il pubblico, né lo "toccano"; si limitano ad esibirsi come corpi grotteschi. Danno l'idea che il loro unico scopo sia quello di alzare ed abbassare il prezzo della carne al mercato di New York.
Ritengo che gli attori di Schechner non sarebbero in grado di apportare qualcosa dall'esterno, come avveniva nel caso del topo morto di A Prima Vista una Comune Cittadina. Ciò che possono riuscire a fare, al massimo,  è trasformarsi essi stessi in topo morto, ma non riuscirebbero mai ad architettare un piano come quello di "procurare in una notte la morte di cento ottantamila soldati dell'esercito Assiro
[13]"; manca in loro la cognizione che  drammaturgia (fiction) significa "apportare". In ogni caso il termine attore non definisce un mestiere. Attore non è qualcosa di fisico. Attore è un "fatto". Comunque, è il caso di chiarire che l'introdurre un topo morto rappresenta un'interpretazione, mentre l'assumere l'aspetto di un topo morto è soltanto questione di make up.

Un workshop che elimini gli altri (oppure un workshop che adopera le altre persone come fonte di repressione) non potrà mai infondere al corpo la tecnica della trasmissione del contatto.
Nel caso del workshop di Schechner, non si  può enumerare neanche uno dei principi del teatro che hanno la funzione di contagiare.

Nell'anno in cui abbiamo organizzato il laboratorio teatrale del Tenjô Sajiki (1966) avevo letto per la prima volta Antonin Artaud. All'interno di questo libro[14] il capitolo riguardante la peste è stato quello che ha lasciato nel mio animo un'impressione più profonda.
In questo libro c'è un passo che racconta di come il viceré di Sardegna Saint-Rémys avesse sognato di contrarre la peste: Saint-Rémys descrive il sogno in cui il suo piccolo stato è devastato dal morbo. "Quando si è colpiti dall'epidemia, non ci si attiene più alle strutture della società; l'ordine si sconvolge; la moralità viene calpestata; l'ordine pubblico decade".  Saint-Rémys vede tutto questo davanti ai suoi occhi. Egli sente, all'interno del proprio corpo, gli umori lacerati emettere gemiti, ritirandosi in piena rovina, e il disfacimento della carne, che si va sfaldando come se si stesse tramutando in carbone. "Sarà ancora possibile curare questa malattia?"  Egli, nel momento in cui è colpito, abbattuto, polverizzato, bruciato fino al midollo si rende conto che nei sogni non ci si aspetta di morire. Nei sogni la propria volontà esercita la sua forza fino all'assurdo. Arriva a compiere cose impossibili elaborando una menzogna da cui si riproduce la verità.
Saint-Rémys, credendo in questo sogno, fa allontanare una nave proveniente dalla rotta orientale che aveva chiesto di approdare. E attua nella realtà questo atto tirannico che scongiurerà l'epidemia.
Questo episodio di Saint-Rèmys mi fa pensare ad un doppio contatto. Il primo è costituito da "il grande disastro, la distruzione ed l'estinzione in campo politico e universale" portati dalla peste; l'altro è costituito da "la caduta e la morte di re; la scomparsa e la distruzione di paesi." dovute al sogno. Per quanto riguarda Saint-Rémys, "sovrapponendosi" in lui entrambi gli elementi, si fa più intensa la sfumatura del dispotismo della finzione. Però, anche se supponessimo che quello di Saint-Rémys non sia stato un sogno, (e anche se medici e storici si dichiarano contrari) l'essenza della peste si mostra, come una misteriosa affinità, e contagia solo la sfera psichica. Vale a dire che nel caso della  peste, così come avviene per "un brutto sogno", non esiste un germe che la generi. E' una cosa sconcertante ma, nel caso delle grandi epidemie che iniziano con un topo morto, in realtà non si tratta d'altro che di putrefazione dovuta alla finzione.

Artaud scrive sul potere della peste:
"Sopra il flusso viscoso e infetto color dell'oppio e della sofferenza che fuoriesce dai cadaveri insanguinati, camminano personaggi misteriosi. Hanno il corpo cosparso di cera, un naso lungo fino ad un metro, gli occhi come palle di vetro e portano calzature simili ai geta giapponesi, costituite da un doppio strato di tavolette di legno, le une sistemate verticalmente al posto dei tacchi, le altre orizzontalmente, per evitare gli umori infetti; camminano canticchiando sutra insensati, ma anche il favore divino non ha effetto, e alla fine anch'essi crollano tra le braci.
I medici ignoranti non fanno che limitarsi a tremare come foglie per la paura, il loro fare e agire è uguale ad azioni di bambini. Gli uomini dei bassi fondi irrompono nelle case spalancate, come se fossero immunizzati, dalla loro frenetica avidità,  e si appropriano delle ricchezze altrui ma alla fine si rendono conto che questo non servirà poi a molto
."
Successivamente appare evidente la metafora tra le azioni immediate e gratuite che si originano al culmine della pestilenza - come "figli obbedienti che uccidano i padri; famiglie stoiche in cui i genitori stuprano i figli del loro stesso sesso; schiavi del denaro che, in preda al delirio, sperperano le loro monete d'oro; eroi di guerra che incendiano la madrepatria" -  e la drammaturgia dell'incontro di Artaud: il "teatro". Intendo dire che il teatro è una rivoluzione che non ha nulla a che fare con la politica; esso significa essere avvicinati dagli altri; o impoverirli o arricchirli, arrivare alla trasfigurazione.

Questi attori[15] - i quali hanno la qualità di precursori, all'interno di una forma di narcisismo illusorio - sono un mezzo di autosoccorso che "imbroglia se stesso", inoltre l'arte dell'attore di Schechner, secondo il mio modo di vedere il teatro, non è in grado di suscitare il benché minimo interesse.

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CAPITOLO 6°

LA PRATICA DELL'ALLENAMENTO (II)

 

Gli "Esercizi per gli attori" di Grotowski, essendo rivolti ad uno scopo precipuo, sono estremamente efficaci. Essi  rappresentano un ulteriore nazione interiore nel piccolo universo costituito dal nostro corpo, e - essendo elementi profondamente radicati nella propria carne, coerenti dall'inizio alla fine - eliminano tutto il mondo visibile, inteso come un'illusione.
Se esaminiamo il mondo ostinatamente chiuso di Grotowski facendo riferimento ai principi del buddismo esoterico, ci renderemo conto che anche esso in realtà non è slegato dalla realtà politica dell'epoca in cui egli vive. Si tratta della storia postbellica della Polonia, ossia il ripetersi di disgrazia e sottomissione; l'intervento politico dell'Unione Sovietica e l'esercizio del potere militare da parte di quest'ultima, aveva portato a credere ai cittadini polacchi che la nazione socialista, imposta loro come visibile utopia, non fosse che una menzogna. Il pessimismo verso le "relazioni" politiche, le spie, gli intermediari, hanno fatto nascere in Grotowski l'ideologia del "baluardo del corpo". Egli, all'interno di uno stato che "non possedeva niente", ha arruolato 'soldati armati del proprio corpo' e ha cercato di realizzare un teatro che fosse un generale super io sociale - facendo rifugiare questi suoi soldati nella fortezza dei loro stessi corpi e facendo donare loro questa esistenza globale.

Nella sezione dedicata agli esercizi vocali in L'Allenamento dell'Attore, del 1966, Grotowski scrive: "Per quanto concerne il pubblico - in questo caso le persone che non prendono parte personalmente agli esercizi - esso deve rendersi "invisibile e inudibile" agli allievi."

Ho avuto la sensazione, in un qualche punto radicato profondamente nel mio corpo, di comunicare tacitamente con questo pubblico invisibile e inudibile e con quello stato federale dell'Unione Sovietica costituito dalla Polonia del dopoguerra.

Nello stesso articolo Grotowski continua a ripetere, inoltre, che pensare al pubblico nel corso dell'interpretazione costituisce un errore. "L'attore pensa:  - L'azione che sto compiendo sarà compresa dal pubblico? - Questa domanda comporta inevitabilmente la presenza dello spettatore. Così  impartisco consigli anche circa il lavoro degli attori che assistono alla scena, ma in questo modo: "Non capisco. Capisco. Capisco ma non riesco a credere."  Se un attore scegliesse di rivolgere al pubblico le proprie azioni, questo attore, in un certo qual modo, finirebbe per vendere se stesso."

Grotowski non approva gli attori che cadono in una forma di narcisismo chiuso in se stesso e indulgono in quella "prostituzione del sentimento" dovuta alla presenza di una consapevolezza troppo evidente di essere visti da un pubblico. In effetti, la conoscenza unilaterale del pubblico da parte di questo tipo di attore che "mostra" è stata generata per via degli spettatori del teatro classico; mentre per Grotowski decade quell'atteggiamento che porta gli attori a preoccuparsi del pubblico deve cessare di esistere. Per lo meno, per Grotowski lo spettatore non è che un osservatore che si trova all'esterno di quel "piccolo universo circolare" che è il teatro. Gli spettatori, composti dai consumatori, i cannibali, i gruppi di outsiders, si possono correlare con il "rapporto" tra Grotowski e gli attori, sotto varie angolazioni ma non sono in nessun caso protagonisti di un'ulteriore "rapporto". Grotowski punta contro lo spettatore un cartello di divieto d'accesso e contemporaneamente genera nel corpo degli attori un'altra Polonia. In ogni caso, i suoi metodi per l'allenamento dell'attore non sono né "un metodo per l'addestramento alla guerrilla" per riconquistare la madrepatria, né tantomeno un catechismo di Ne¢aev[16]. Essi rinunciano completamente alla trasmissione del contatto partendo dal rifiuto dei principi della realtà quotidiana come cose "invisibili e inudibili". Gli attori di Grotowski si esibiscono ma non coinvolgono, e il pubblico decifra la cerimonia dei corpi che si verifica sul palco non come esperienza, bensì come conoscenza e può percepire che il potere magico, insito nel processo di traduzione di quest'esperienza in un'altra, va gradualmente sfumando.
"1.       Parlare alle cosce usando le mani.
2.        Per esempio,  parlare al soffitto rivolgendo la bocca verso l'alto.
Proviamo a sperimentarlo in pratica:
- Provate a costruire dei dialoghi improvvisati - "Signor soffitto, riesce a sentire la mia voce? - Non la sente?... - Ma perché non mi ascolta?" - Questo esercizio, che il soffitto possa udire la nostra voce e rispondere o meno, ci sviluppa l'orecchio. Il fatto di volgere l'orecchio alla propria voce fa  si che le corde vocali si ostruiscano, così come la stesso risonanza costituisce un ostacolo.
Ora per cortesia, contemporaneamente ad un'azione concreta, agite, parlate, discutete e toccatevi
."
Così facendo Grotowski seziona il proprio corpo: egli realizza  esercizi in cui piedi e orecchie dialoghino, mani e naso facciano un coro, il dito indice e un ginocchio discutano tra loro; o ancora, può discorrere con il soffitto, venire persuaso da un tavolo, intraprendere una accesa disputa con una matita.
In ogni caso, qualunque cosa faccia, non cerca mai di dialogare con il pubblico (o con altre persone).
I fatti contenuti nella memoria della gente devono essere considerati come "inesistenti". Questo rigido precetto non può essere infranto.
Però, il limite  imposto di ricercare l'animale prescelto all'interno del proprio corpo, porterà l'attore all'impossibilità di compiere l'incontro al di fuori di sé. La filosofia secondo la quale le "persone intorno a sé non esistono", esagerando l'attenzione sull'io, finisce per dimenticarsi della storia. E così capita che "per guardare solo gli uccelli si perda di vista il cielo alle proprie spalle".
Grotowski insegna agli attori: "Nel caso in cui si dovesse recitare l'uccisione di un animale, il solo ricordo concreto di cosa si sia fatto al momento di uccidere un animale nella realtà sarebbe insufficiente. In altre parole si deve scoprire concretamente in prima persona la dura realtà. In questo caso quanto sta ad indicare che  si tratta di  una cosa crudele (ossia teatrale) non per questo è sufficiente a significare che sia anche rigoroso. Non si può neanche chiamarlo un sacrificio.
È necessario esplorare un segreto più profondo. Per esempio pensate che, in questa scena, uccidere un animale susciti un naturale ribrezzo e costituisca un vertice? Probabilmente non avrete niente da obiettare. Se siete di questo parere vi prego di cercare nei vostri ricordi l'istante culminante nella violenza del movimento del vostro corpo, il quale rappresenta un'esperienza tanto preziosa da non poter essere condivisa con gli altri. E' questo ricordo che si deve tirare fuori al momento di uccidere l'animale all'interno dello spettacolo; questo ricordo interiore e concreto, pur essendo pressoché invisibile agli occhi degli altri, a noi non può sfuggire.
"
Comunque, secondo me i ricordi personali ostacolano la costruzione del teatro. Perché essi costituiscono qualcosa di troppo personale  pertanto non lasciano spazio all'introduzione degli altri. I ricordi vengono raccolti all'interno di ognuno e unificati. Nel caso in cui vengano espressi sotto forma di recitazione assumono la caratteristica di modello della persona che li ha generati. Per quanto Grotowski rifiuti la "la consapevolezza come risultato".

                                               <ESERCIZI ASSOCIATI>

(L'allievo deve cantare una canzone mentre evoca un'associazione con i seguenti elementi)
            - Tigre
            - Serpente
            - Serpente che si contorce
            - Coltello per tagliare
            - Ascia per abbattere
La canzone che gli attori creavano da questo compito del workshop di Grotowski, non era frutto della loro storia personale. In ogni caso, essendo riusciti ad eliminare la "conoscenza come risultato", c'era differenza tra il serpente cantato da un attore e quello di un altro. Non si trattava di ricordare un serpente, bensì di condividere, tra se e gli altri, un'idea di serpente e creare un serpente che invisibile. Pertanto non si deve dimenticare che può anche capitare che l'attore sia costretto a dimenticare il suo "serpente",
A dirla con le parole di Salomone: "Tutto ciò che è nuovo altro non è che una cosa vecchia dimenticata".

 

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CAPITOLO 7°

LA PRATICA DELL'ALLENAMENTO (III)

 

Il recitare consiste nel dare seguito ad una reazione.

Jerry, il protagonista di "La storia dello Zoo" di Albee[17], il quale continua a parlare ad un signore di mezz'età seduto su una panchina al Central Park, fino a morirne, si può definire un uomo fedele alle fondamenta del teatro. Ma in questo spettacolo di Albee la drammaturgia, intesa come relazione, non è stata capace a risucchiare al di fuori della scena anche l'uomo di mezza età a cui parla Jarry, in quanto anche egli è un personaggio. In parole povere Albee finisce per rendere personaggio anche lo spettatore. Per questo motivo, l'interesse sollevato da Albee nei confronti di "ciò che avviene allo zoo" che consiste nello sviluppo collettivo delle leggi e dei principi della realtà quotidiana modificati dall'immaginazione, finisce per creare una forma che esclude lo spettatore.  Per giunta per il fatto di riprodurre la struttura basilare del teatro e per il fatto di attuare la finzione, il teatro di Albee fa un passo indietro rispetto a quello contemporaneo e si allontana dall'attuazione della trasmissione del contatto.

Vorrei che prendeste parte a questo workshop mettendovi nella testa queste cose:
- il fatto di parlare ad uno sconosciuto; mantenere con questo un rapporto accurato (in questo caso non importa se sia insensato) finisce col creare una storia; lo sconosciuto viene travolto e coinvolto, essendo attratto a sé e poi respinto bruscamente; il fatto che, o signori, in Il Giudizio, di Kafka, ci sia  un gruppo di criminali all'improvviso cattura Joseph K.;  il fatto che non si debbano attirare dalla propria parte tutti i ricordi.
Questo fu il primo workshop del Tenjô Sajiki tenutosi nel 1971. Nel corso del suo svolgimento chiamavamo i passanti: "Papà!" e davamo loro un testo. Gli attori fermavano un passante: "Papà!"
 Il contenuto di questa azione era la finzione creata in precedenza, ma l'uomo che veniva chiamato si trovava nei principi della realtà quotidiana. L'incontro era fin dall'inizio assurdo e ridicolo. Proviamo a presentare il testo:
1. Papà!
2. Non sei il mio papà?
3. Sono io!
4. Ti sei dimenticato di me? Ma non ti vergogni?
5. Davanti a tutti. Ti prego, chiamami Masahiko.
6.
(Se lo chiama) Ehi, allora non mi sbagliavo, sei proprio papà!
  
(Se non lo chiama) Perché non mi chiami? Non me lo hai messo tu questo nome?
7. Sono Masahiko! Sono Masahiko! Sono Masahiko!
8. Papà, ti senti bene?
9. Ancora non sei guarito dal tuo vizio di rubare?
10. Sembra proprio che tu non riconosca che sono Masahiko. Ma c'è qualche motivo?
11. Ho capito! Ti sei risposato!
12. Non è così?
13. E' così, non vuoi che si sappia che 15 anni fa mi hai abbandonato al bacino per gare motonautiche.
14. Ti scongiuro, ricordati! Quel giorno pioveva.
15. Papà, possibile che abbia dimenticato tutto?!
16
(all'improvviso, prendendolo per il colletto) Prenditi le tue responsabilità! Le tue responsabilità...

Questo esercizio viene ripetuto, a seconda delle volte, attenendosi fedelmente al testo oppure improvvisando. Quindi nel caso di "attaccare discorso" utilizziamo gradualmente i media: per esempio "visite porta a porta" oppure "usiamo il telefono". E' inevitabile raggruppare il teatro di strada, quello per telefono, quello porta a porta, ma questi non sono altro che un risultato estremo della trasmissione del contatto, non sono che i media del teatro,  i quali ci forniscono una forma rivoluzionaria.
 Perché chiamare "papà!" per telefono, o andare a dire porta a porta "Prenditi le tue responsabilità! Le tue responsabilità..."? La spiegazione è semplice: coloro che sono resi interlocutori - sia per telefono, sia porta a porta - rispondono subito, possono reagire, perché chiamando l'interlocutore viene meno il passaggio a senso unico.

Durante il dibattito aperto al pubblico incentrato su Enzensberger ho dichiarato: "E' nostra naturale intenzione  pensare alla recitazione non come ad un media di distribuzione, bensì come ad un media di comunicazione." "Perché secondo il pensiero di casta (le classi speciali), finora, nel teatro ereditato dalla tradizione, gli attori hanno ricevuto una tecnica in cui viene attuata una ripartizione di compiti. tuttavia, secondo noi la recitazione deve consistere in una connessione perdurante di anelli della comunicazione, non solo, ma deve anche fungere da radice per il potere di immaginazione generato dall'azione reciproca". E' per questo motivo che nel corso del workshop ho sperimentato questi tipi di esercizi:
1. Ho introdotto un esercizio che prevede l'intrattenere una conversazione telefonica con uno sconosciuto per oltre 100 minuti.
2. L'esercizio pratico di visitare porta a porta le case di sconosciuti portando con sé un cavolo e formulare in 100 parole la richiesta di farselo custodire per 10 giorni.
3. L'esercizio che prevede la costituzione del "dizionario enciclopedico vivente" in grado di informarsi, ad ogni costo, su qualsiasi cosa riguardante il suo interlocutore, nel giro di 10 minuti.
4. L'esercizio di continuare a parlare con un interlocutore sconosciuto fino a che questo consenta a dire "io sono un coccodrillo".


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CAPITOLO 8 

LA PRATICA DELL'ATTORE (IV)

 

Sulla parete era stata scarabocchiata la scritta "Teatro anno zero".
In una scena ad un attore addetto alle visite porta a porta estremamente imbarazzato era stato imposto di ripetere la frase: "La natura teatrale di Guillome.", "La natura teatrale di Guillome.", "La natura teatrale di Guillome.". si tratta di  una scena ripresa dal film La Cinese di Jean Luc Godard. L'attore immagina  una donna grassa che indossa un costume da bagno. Appena egli bussa alla porta di vetro, al suo posto appare una giovane donna priva del costume. Guillome, divenuto improvvisamente risoluto, bussa per le visite porta a porta. Poi,  rivolto una  donna venuta dall'interno dell'abitazione, inizia a declamare un versetto di Racine, ma la donna intenta a lamentarsi della propria vita quotidiana, rifiuta il confronto con Guillome. La donna scoppia in lacrime, Guillome si fa sempre più serio.
Riguardo a questa scena di 'teatro porta a porta' Godard spiega quanto segue:
"Temo che quel metodo difficilmente potesse essere compreso dal pubblico. Forse invece di adottare un atteggiamento rivolto ad una soluzione personale, sarebbe stato meglio usare un'espressione univoca, valevole per chiunque.  Per esempio soluzioni di questo tipo: una persona canta, una suona la chitarra, oppure un altra dipinge un quadro. Usare i testi di Racine e Sofocle partendo da un'ottica comunista e riadattarli  in conformità al periodo e alla situazione;  se ci sono domande dai passanti o dagli spettatori rispondere prontamente, discutere, trovare la risposta migliore, parlare con le persone faccia a faccia, intavolando vere e proprie discussioni. Non ci sono limiti, tutto è teatro, tutto è cinema, tutto è scienza e letteratura. Più si mescolano elementi più il complesso migliora; anche all'università sarebbe meglio far esporre le conferenze agli attori. Gli insegnanti universitari, quando parlano sembrano scimmie vecchie rimbambite".

Possiamo dire che, eccetto un punto,  la visione del teatro emergente dalle visite porta a porta di Godard ha profonde connessioni con la mia "Teoria del teatro di strada". In ogni caso questo punto che segna l'eccezione ha una grandissima  importanza -: Godard usa il teatro come mezzo per arrivare a delle soluzioni, a delle risposte. Questo si può intendere come il voler pretendere che il  teatro abbia un ruolo. Questo perché, nel caso in cui costituisca un cane da guardia di una determinata ideologia,  il 'teatro porta a porta', impostato sulla linea dell'insegnamento di influenza brechtiana, ha come risultato la politicizzazione della strada, e finisce per portare ad una divisione  dei rapporti interpersonali anziché unificarli.

Nell'estate del 1971 ho dato vita, per le strade delle città europee, al workshop intitolato Cercando Heinrich, ideato allo scopo di allenare gli attori. Il brano che segue riguarda la scena dell'attrice Gaby.
Gaby ha recitato ad Essen nella mia pièce L'Epoca a Cavallo dell'Elefante Circense e, alla fine di questo spettacolo, ha espresso il desiderio di prendere parte anche al mio teatro di strada. Così ho ripreso le scene del suo Cercando Heinrich in pellicola a 16 millimetri, e mi sono appuntato delle note durante le riprese.
(L'esperimento consisteva nel girare una città vera alla ricerca di un personaggio inesistente, chiedendo informazioni alla gente comune: Heinrich. Così Heinrich veniva costruito all'interno della fantasia, e dalla sua inesistenza veniva prodotto un nuovo mondo e... chissà che all'improvviso Heinrich non apparisse...)
Gaby irruppe esagitata in una drogheria dicendo: "Non conosce Heinrich?" mentre io, dall'altro lato della strada, inquadravo la scena con una macchina fotografica dotata di teleobiettivo. Quando disse: "Heinrich è scomparso!", la grassa commessa della drogheria le rispose completamente impassibile: "Heinrich? Mah, che vuole che le dica, sarà qua fuori!", sgranando gli occhi Gaby le rispose: "Come? E dove?",  e la commessa: "Perché non provi a cercarlo in qualche cassonetto della zona?"

Domenica in viale Cristo c'era un vecchio cane accovacciato sulla scalinata che sbirciava con la coda dell'occhio da questa parte.

*

Gaby: "Non è che conosce Heinrich?"
"Non lo conosce, eh?"
"E' scomparso, sa."

Passante: "Ha provato ad andare alla polizia?"

Gaby: "..."

Passante: "Bè, questa vicenda non ha niente a che fare con me!"

Gaby: "Heinrich è stato sospettato di essere una spia della Germania orientale, ma è falso! Era un onesto seminarista."

Passante (agitato): "Mi dispiace, ho fretta. Arrivederci."

Gaby: "Aspetti, la prego. Heinrich potrebbe essere stato assassinato!"

Passante: "Non sono fatti che mi riguardano. Non mi interesso cose riguardanti la politica."

Gaby: "Ma signore, potrebbe trattarsi di un caso profondamente connesso alla criminalità e alla politica della Germania."
"Cosa farà, signore, se un domani qualcuno dovesse arrestare anche lei, nonostante sia innocente?"

Passante: "Mi perdoni, ma per carità, non mi chieda niente."

 

*

Gaby se ne stava seduta sulla scalinata. Non avendo con sé una chitarra né altri strumenti, si limitava a cantare a proprio piacere. Sembrava che le piacesse particolarmente un brano composto da  Leo Ferré contenuto in "I Fiori del Male" di Baudelaire.
"È partito verso luoghi lontani!
È già troppo distante!
Non vedrà mai la luce il giorno in cui lo rincontrerò.

Non conosco la tua strada, né tu la mia.
Me ne sono resa conto quando ci siamo amati.
" Poi un ragazzo che passava di lì le gridò:
Ragazzo: "Ehi, pupa!"
"Chi stai aspettando in un posto simile?"

Gaby: "Heinrich, non è che lo conosci?"

*

"Il teatro deve cercare di rendere completamente indipendente la relazione tra il punto di vista soggettivo e l'oggetto. Ma i nostri contemporanei hanno perso la curiosità per certe cose. Può darsi che l'abbiate letto, Moravia scrive: "La noia è il crollo di tutte le relazioni tra soggetto (il protagonista) e oggetto (gli altri personaggi). L'incapacità del soggetto di recuperare i rapporti significativi ormai perduti con gli oggetti che si trovano nel suo ambiente."

Penso che quella di cercare una persona sia un'esperienza meravigliosa, anche qualora supponessimo che quella persona non esiste nella realtà." "Perché Heinrich, questo spettro nel cuore che tu stesso hai costruito, sarà la tua ricetta contro la noia."
"Per me è come se fosse un fratello."
"Insomma tu..."
"Il fatto è che sento il bisogno di una drammaturgia"
"L'anno zero del teatro! L'anno zero del teatro! L'anno zero del teatro!"

 

 



[1]Nel senso di condivisa.

[2]Ossia di uguaglianza di sentimento.

[3]James George Frazer. Etnologo inglese (1854-1941)

Famoso studioso di etnologia religiosa. Il ramo d'oro (11 voll., 1890); Totemismo ed esogamia (1910);

La credenza dell'immortalità (1913).

[4]Sensazione condivisa.

[5]Festa che organizzano annualmente gli studenti della Todai University.

[6] Terayama intende dire che prima l'attore  era solo un mezzo, un ripetitore di sentimenti, ossia per fare una metafora magica: un feticcio, ora è invece capace di creare relazioni con i partecipanti, divenendo perciò uno stregone.

[7]Nell'originale l'autore usa il termine traslitterato dall'inglese pomp.

[8]Nel corso della sua carriera, in un periodo particolarmente delicato, sorto in seguito a gravi difficoltà economiche, Terayama si è occupato anche di televisione e giornalismo, ed in particolare di cronaca. Probabilmente queste sue riflessioni risalgono ad un coinvolgimento personale in questo tipo di vicende, avvenuto durante quel periodo.

[9]Compagnia teatrale fondata da Yûtaka Takashi dopo aver lasciato il Tenjô Sajiki.

[10]In giapponese: "gukôgeki".

[11]Cognome traslitterato dal giapponese. L'autore di Barbablù è Charles Perrault, stranamente il nome corrisponde. È possibile che, nel caso del cognome, si tratti di un errore di trascrizione.

[12](1894-1939) Autore di gialli e romanzi polizieschi composti sotto l'influenza del mystery occidentale introdotto, in traduzione, fin dalla restaurazione Meiji (1868). Appassionato studioso e critico del mystery  viene riconosciuto come il fondatore di questo genere in Giappone. Le sue storie erano pubblicate sulla rivista Shinseinen, (Nuova gioventù), fondata nel 1920, specializzata nella giallistica, che accoglieva altre al suo contributo, quello degli altri primi scrittori giapponesi esperti nel genere.  Il suo nome costituisce uno pseudonimo generato dalla traslitterazione in ideogrammi, modellata sulla pronuncia giapponese, di 'Edgar Allan Poe'.

[13]Si fa qui riferimento a un'ondata di pestilenza che in una sola notte, stando a Erodoto e alla Bibbia avrebbe sterminato cento ottantamila soldati dell'esercito assiro, salvando in questo modo l'impero egiziano. Questa notizia viene riportata da Antonin Artaud in "Il teatro e il suo doppio" nell'ambito della sua descrizione della pestilenza e del suo effetto sul teatro.

[14]Terayama fa riferimento a "Il teatro e il suo doppio" (Le théâtre et son double), una raccolta di saggi e articoli sul teatro pubblicata nel 1938 in cui Artaud esprime, tra le altre idee, la sua concezione di 'Teatro della Crudeltà'

[15]Quelli facenti parte del workshop di Schechner.

[16]Sergej Gennadievi¢ Ne¢aev, Rivoluzionario russo (1847-82) Fondò l'associazione rivoluzionaria La Società della Scure.

[17]Edward Albee (Washington 1928) drammaturgo statunitense. Tra i suoi atti unici più noti figurano Zoo Story (1959), The Death of Bessie Smith (1969), The American Dream (1961) e i drammi Who's afraid of Virginia Woolf? (1962) e A Delicate Balance (1966) nei quali elabora tecniche ed artifici del teatro dell'assurdo per conferire vigore scenico alla sua aspra analisi delle nevrosi dell'America contemporanea.